I ricordi di Franco Corcione:
«Così si viveva
nel mio Cavone»

I ricordi di Franco Corcione: «Così si viveva nel mio Cavone»
di Maria Chiara Aulisio
Sabato 23 Marzo 2019, 09:21 - Ultimo agg. 30 Marzo, 16:30
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Qualunque cosa facesse, gli toccava dare il buon esempio. Perfino quando si andava al mare, a lui - Francesco Corcione, per tutti Franco - spettava il compito di nuotare bene, fare per tempo i compiti delle vacanze, fare attenzione a non bruciarsi le spalle e rispettare le regole di casa. Essere il più grande, primo di cinque fratelli, oltre a qualche vantaggio (pare pochi), comportava una quantità di seccature, che però sopportava con pazienza certosina. Nato 'o Cavone 'e piazza Dante - dove il papà, stimato vinaio, faceva casa e poteca, lavorando senza sosta dalle sette del mattino alle dieci di sera - il giovane Corcione cresceva serio e intelligente, portandosi sempre dietro quel piccolo fardello.

Il buon esempio, insomma.
«Una regola di famiglia, che poi ha ispirato tutto il mio percorso di vita».

Genitori inflessibili?
«Il punto era un altro. Mamma e papà erano due persone culturalmente modeste, ma lungimiranti e argute. Lei si occupava di crescere noi cinque figli, lui gestiva una bottega di vini e olii a due passi da casa. Entrambi sapevano che dovevano portarci via dalla strada: pur abitando lì, bisognava stare lontani dal Cavone; il rischio di finire male era troppo alto».

E andare ad abitare altrove?
«Impossibile. Per papà lavorare vicino a casa era una abitudine irrinunciabile, e mai avrebbe lasciato quel negozio. All'ora di cena, mamma calava la pasta quando dalla finestra della cucina lo vedevamo che tirava giù la saracinesca. Salvo poi rialzarla al volo, se arrivava il cliente dell'ultim'ora. Una scenetta quasi comica, sempre la stessa: Mamma, butta i maccheroni, finalmente sta chiudendo.... E subito dopo: No, no, aspè, non buttare niente, sta riaprendo. Una tortura per noi cinque, che tenevamo sempre 'na famme 'e pazze».

Insomma, dal Cavone, la famiglia Corcione non intendeva muoversi.
«Impossibile farlo».

Quindi?
«Mamma e papà decisero di allontanare solo noi, nell'unico modo praticabile: facendoci frequentare una scuola privata in un'altra zona della città».

Quale scuola?
«L'istituto Bianchi. E che sacrifici... I nostri genitori si sono privati di tutto, per farci studiare lì - dalle elementari all'ultimo anno del liceo -, raggiungendo però l'obiettivo di inserirci in un ambiente che nulla avesse a che fare con il Cavone e le scuole pubbliche della zona».

E lei sempre a dare il buon esempio?
«Lo sforzo dei miei genitori era tale che non si poteva sbagliare. Il costo della scuola non ammetteva errori. Dovevo dimostrare ai miei fratelli che tutto andava fatto seriamente e con impegno».


 
Quindi era bravo?
«Alle elementari non particolarmente brillante, le mie lettere erano sempre tutte storte. La verità? Nel mio dna c'era già la scrittura del medico. In prima media, invece, migliorai molto; venni promosso con ottimi voti e i miei genitori mi regalarono il viaggio con la scuola: Austria, Svizzera e Germania».

Altri sacrifici.
«Enormi. Ma sempre con un obiettivo preciso. Loro, che non erano mai andati oltre piazza Dante, volevano che noi figli crescessimo diversamente. E anche quel viaggio, che in realtà doveva essere una vacanza premio, per me non lo fu affatto. Dovevo guardare, capire, apprendere, studiare... altrimenti quei soldi sarebbero stati spesi inutilmente. E non potevamo permettercelo». 

Cinque figli sono tanti.
«Mamma ne faceva uno ogni due anni. Solo tra me e Pasquale ce n'è uno e mezzo di differenza, e infatti siamo cresciuti come due gemelli. Si faceva tutto insieme, però lui un po' mi subiva. Eravamo piccoli, una volta gli dissi di dare una martellata in testa a mia sorella, la terza, e lo stava facendo veramente; meno male che qualcuno intervenne prima che fosse troppo tardi».

Dal martello al bisturi. 
«Una folgorazione. Anzi, due. La prima quando un pediatra venne a casa a visitare noi bambini ammalati: arrivò in auto, molto elegante, tutto profumato e con un bell'orologio al polso. Si vive bene facendo il pediatra - pensai tra me e me. Quasi quasi, ci provo pure io. La seconda, invece, quando il chirurgo che operò la nonna di ulcera uscì dalla sala operatoria con in mano la parte di stomaco che le aveva tolto. Avevo 16 anni, e in quel momento mi resi conto che un uomo poteva eliminare ciò che faceva star male un altro uomo, e restituirgli la vita. Decisi che quello sarebbe stato il mio mestiere».

Intanto, però, andava ancora al liceo. Sempre buoni voti?
«Caspita, diventai pure Principe degli studi. Un riconoscimento assegnato a chi, dal quarto ginnasio al terzo liceo, manteneva la media del nove. Ricordo ancora la gioia di mia madre e mio padre quando, alla presenza del rettore e del cardinale, mi consegnarono la targa. E non solo».

Che altro?
«Il mio nome veniva aggiunto a quelli di tutti gli altri principi, dagli anni Venti in poi; e avrebbe troneggiato a imperitura memoria nei corridoi dell'istituto. Analogamente, quando ho concluso il mio lungo percorso da presidente della Società italiana di chirurgia, ho lasciato un simbolo simile. Una bella emozione, quando penso a due percorsi di studio conclusi nella stessa maniera».

Bravo lei e i suoi genitori, che ce l'hanno fatta.
«A caro prezzo, ma si sono tolti le loro soddisfazioni. Non dimenticherò mai mio padre quando, dietro al bancone del suo negozio di vini e olii, guardandomi dritto negli occhi, mi disse: Manson, io indosso il camice nero, il tuo dovrà essere bianco».

La chiamava Manson?
«Il medico di provincia protagonista de La Cittadella - uno sceneggiato del 1964 - che guardavamo sempre insieme lui e io. Lo interpretava Alberto Lupo, e raccontava le commoventi avventure del dottor Andrew Manson, impegnato a lavorare in un piccolo villaggio minerario del Galles. Mio fratello mi chiama così ancora oggi». 

Dottor Manson.
«Mi torna in mente un ricordo. Curavo Marcello d'Orta».

Io speriamo che me la cavo?
«Proprio lui. Mentre chiacchieravamo mi disse: Ma lo sai che mi ricordi il medico della Cittadella. Mi sembrò di risentire mio padre cinquant'anni dopo. Alla fine scrisse un articolo intitolato Il dottor Manson abita a Napoli, e mi regalò pure le cassette dello sceneggiato».
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