I ricordi di Federica Brancaccio:
«Quei buoni benzina
timbrati per 50 lire»

I ricordi di Federica Brancaccio: «Quei buoni benzina timbrati per 50 lire»
di Maria Chiara Aulisio
Sabato 15 Settembre 2018, 20:00
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Federica Brancaccio, prima donna alla guida dei costruttori napoletani, da bambina sognava di fare tutt'altro. Che cosa? Marito, crescere tre o quattro figli, e poi i nipoti, tanti nipoti. Modello Mulino bianco, insomma. Questo era quello che Federica - imprenditrice di razza, seconda di tre sorelle e un fratello, piglio da manager e carattere dominante - avrebbe voluto fare da grande. Invece no. La vita le è andata diversamente. O meglio: marito e figli non se li è fatti mancare, ma nel frattempo è anche diventata una donna di successo, a capo dell'impresa di famiglia - la Brancaccio Costruzioni Spa. Impresa che in sessant'anni di attività ha realizzato in tutta Italia edifici (privati e pubblici) nei campi più diversi: dalle abitazioni ai parcheggi, dalle chiese alle sale cinematografiche, dagli ospedali alle scuole, dalle strade alle linee metropolitane, dalle opere di sostegno agli acquedotti, dagli stadi ai porti e agli interporti. E ancora oggi vanta una serie di collaborazioni con la parte più avveduta della cultura architettonica e ingegneristica italiana, proponendo quello che la Brancaccio definisce il modello imprenditoriale napoletano, giusto mix tra una grande versatilità e la straordinaria capacità di risolvere i problemi. 
 
 

Eppure voleva fare la mamma e basta.
«Confermo. Ne ero assolutamente convinta. Al punto che anche la mia scelta universitaria fu condizionata da questa idea».

In che cosa si è laureata?
«Lingue e letterature moderne, alla Federico II».

Perché una scelta condizionata?
«Decisi di studiare quello che mi piaceva di più, senza pensare a eventuali sbocchi futuri. Amavo la letteratura, le lingue straniere, la filosofia, l'arte, la storia. Volevo fare la mamma, e allora tanto valeva studiare semplicemente ciò che mi piaceva. Ricordo ancora la bellezza di un esame di Letteratura iberoamericana, che aveva una parte speciale su cinema e letteratura. Il professore si chiamava Galeota, non lo dimenticherò mai. Anche medicina era nelle mie corde, ma poi avrei dovuto fare il medico, un lavoro che vedevo poco compatibile con la famiglia. In ogni caso, quella universitaria, è stata una scelta che non ho mai rimpianto».

Soddisfatta, insomma.
«Senza alcun dubbio. Seguire le proprie inclinazioni è sempre la scelta migliore e rende tutto più facile. Nel mio caso, poi, la laurea in Lingue e letterature moderne è stata ugualmente utile. Il resto l'ho imparato sul campo».

Che cosa le ha fatto cambiare idea? Dal desiderio di fare la mamma a tempo pieno a leader dei costruttori il passo è piuttosto lungo.
«In realtà, man mano che crescevo, quel sogno andava allontanandosi. Sono sempre stata una donna molto attiva, l'azienda di famiglia l'ho amata da subito, ricordo ancora quando ci andavo con mio padre e passavo il pomeriggio con la segretaria a timbrare blocchetti».

Timbrare blocchetti?
«Premessa: i miei genitori di soldi ce ne davano pochi, io miei fratelli dovevamo sempre arrotondare in qualche modo. E il timbraggio era uno di quelli». 

Con la complicità della segretaria.
«Esatto. Era lei a affidarmi i blocchetti aziendali della benzina, che andavano timbrati e poi consegnati ai dipendenti. Per ogni blocco, mi pagava cinquanta lire». 

Ecco perché in ufficio ci andava volentieri.
«Non solo lì. Papà lo seguivo anche nei cantieri: la parte di lavori edili, impiantistici e tecnologici mi è sempre piaciuta. Da qui poi la decisione di scendere in campo e occuparmi in prima persona dell'azienda. All'inizio in maniera saltuaria, ho cominciato un po' alla volta; poi con sempre maggiore assiduità». 

Fino a diventare leader dei costruttori napoletani.
«Un passo alla volta, naturalmente. Ricordo l'anno in cui costituimmo il gruppo giovani a Napoli: era il 1987, cominciai a seguirlo subito con impegno, lo facevo con grande passione».

Chi c'era con lei?
«Eravamo parecchi: Rudy Girardi, Francesco Tuccillo, Maurizio Della Morte, Guido Cabib, Michele e Mimmo Giustino - giusto per citarne qualcuno. Dal '92, poi, ho cominciato a lavorare in azienda in prima linea». 

E la famiglia alla quale avrebbe voluto sacrificare la sua vita professionale?
«Alla fine ce l'ho fatta lo stesso, grazie anche all'energia che avevo da ragazza: lavorare e crescere i figli insieme non mi ha mai spaventata. È chiaro che dei sacrifici sono stati necessari, soprattutto da parte dei ragazzi».

Quanti figli ha?
«Due, Luca e Marco. Il primo ha trentadue anni, il secondo trentuno».

Alla famiglia numerosa però ha dovuto rinunciare.
«C'è la mia d'origine, che basta e avanza. Abitiamo ancora tutti insieme, e non c'è giorno che non ci si veda. Ogni tanto si litiga pure, ma è normale che sia così. Con mia sorella Vittoria ci scontriamo spesso, ma poi subito si fa pace».

Questioni di carattere?
«Quando ero piccola, mi chiamavano la badessa, la superiora delle monache, sembra volessi sempre comandare. Mia madre, e non solo lei, diceva che avevo la tendenza al comando, ma non è così».

Una base di verità ci deve pur essere.
«Sciocchezze. Quando ero piccola, venivo accusata di voler decidere io tutto, anche quello che si doveva mangiare. Una sera i miei fratelli organizzarono una vera e propria rivolta contro di me. Rivendicavano libertà e autonomia almeno rispetto al cibo». 

La ottennero?
«Ma certo. Io mi limitavo solo a dare dei consigli, loro li prendevano come delle imposizioni. Ho sempre avuto un bel senso materno e mi piaceva occuparmi dei miei fratelli, benché fossi la seconda. In ogni caso, alla fine vivevamo letteralmente in simbiosi e nessuno mai avrebbe potuto separarci; tant'è che ancora abitiamo tutti nello stesso posto». 

Lavoro e famiglia, insomma.
«Non solo. All'amicizia non ho mai rinunciato. Prova ne è che, quando ho dovuto scrivere la relazione nel giorno della mia nomina all'Acen, mi sono trasferita due giorni a casa di una mia amica, dove poi ne sono arrivate altre due, e tutte insieme abbiamo elaborato il discorso».

Lavoro di gruppo?
«Ci siamo fatte un sacco di risate. Sono stati due giorni esilaranti, tra cioccolato e sigarette, una goduria».

E la relazione?
«Una scusa per stare insieme».
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