I ricordi di Sandra Lonardo:
«Io, emigrante negli Usa
con il cuore a Ceppaloni»

I ricordi di Sandra Lonardo: «Io, emigrante negli Usa con il cuore a Ceppaloni»
di Maria Chiara Aulisio
Sabato 2 Marzo 2019, 18:00 - Ultimo agg. 3 Marzo, 18:50
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Prima la semplicità della vita contadina, in un paesino di provincia nel beneventano, dove l'evento più atteso era il giorno in cui si ammazzava il maiale. Poi la modernità assoluta di Oyster Bay, sull'isola di Long Island, a una manciata di chilometri da Manhattan - cuore pulsante della New York anni Sessanta, dove già risuonavano le note delle canzoni di Bob Dylan, si leggevano le poesie di Allen Ginsberg e il grande Andy Warhol rivoluzionava il concetto di pop art. Luci, colori, avanguardia e trasgressione. Non fu facile per Alessandrina Lonardo, per tutti Sandra, essere catapultata da un giorno all'altro in un mondo tanto lontano dal suo, e adattarsi a quel cambiamento. 


Perché vi trasferiste negli Stati Uniti?
«Questioni economiche. L'azienda agricola di mio padre cominciò a andare male, eravamo una famiglia numerosa, cinque figli, qualcosa bisognava pur fare. In America c'erano alcuni parenti che avevano fatto fortuna, così papà decise che saremmo andati a vivere lì e lui avrebbe lavorato con loro».

Da San Giovanni di Ceppaloni a Long Island, bel salto.
«Avevo appena 12 anni, non parlavo una parola di inglese e nel mio paesino ci stavo benissimo. Ricordo ancora quel senso di tristezza che mi prese quando ci imbarcammo su questa enorme nave che ci avrebbe portato a New York. Fu un viaggio lunghissimo, era il mese di gennaio e faceva freddo da morire: entrammo in porto con le navi rompighiaccio ad aprirci la strada. Ma, quando arrivammo, non potevo credere ai miei occhi».

Le piacque New York?
«Molto. Gli zii vennero a prenderci con tre limousine e ci portarono subito a fare un giro della città. Poi ci spostammo a Long Island, dove vivevano in una villa bellissima. Roba mai vista in vita mia, rimasi sorpresa perfino dal frigorifero che troneggiava maestoso in cucina». 

Sorpresa dal frigorifero?
«Era a doppia anta, faceva pure il ghiaccio. A casa nostra ne avevamo uno piccolo piccolo. Non immaginavo che ne esistessero grandi così».

Insomma, bella vita.
«Gioie e dolori. Come quando i compagni di classe mi prendevano in giro perché non capivo niente di ciò che dicevano. Ricordo ancora il suono delle loro risate, ogni volta che confondevo le parole o sbagliavo la pronuncia».

Poi però l'inglese lo ha imparato.
«Tempo sei mesi e parlavo perfettamente. E non solo. In breve tempo riuscii a diventare una delle più brave della classe, al punto che ricevetti in regalo la patente». 

Al posto della tradizionale coccarda, il permesso di guidare l'auto?
«Nei licei americani, in quegli anni, si faceva così: ai migliori veniva offerta la possibilità di prendere la patente a 17 anni. E io fui tra quelli».

Un po' secchiona?
«No, secchiona no. Studiavo con impegno, è vero, ma questo non mi impediva ad esempio di praticare tutti gli sport possibili. Al termine delle lezioni, ci scatenavamo: tennis, pallavolo, ginnastica...».

E così, ben presto dimenticò il paesello.
«Questo mai. È vero, lì oramai stavo bene, ma i ricordi della vita a San Giovanni erano indelebili. La Pasqua a casa della nonna mi mancava molto, quando si preparavano i dolci per la festa: ognuno portava un ingrediente, si mettevano tutti insieme e si cominciava a impastare. A Natale pure i panettoni e, se si faceva tardi, dormivo sulla cassapanca vicino al fuoco: non potevo perdermi il momento in cui venivano sfornati. E poi il giorno del maiale».

Quando si ammazzava?
«Il nonno Carlo dirigeva le operazioni, e ognuno aveva un compito ben preciso da assolvere. A noi bambini spettava assaggiare le salsicce, che prima avevamo messo a arrostire sulla brace. Stavo lì con gli occhi sgranati a osservare tutto quello che facevano gli altri. Il risultato è che oggi so fare il prosciutto, conosco il procedimento per salare i salumi, per fare il sanguinaccio e perfino i pezzi di sapone».

Che cosa c'entra il sapone?
«C'entra eccome. Perché anche quello lo facevamo con gli avanzi di grasso del maiale, lavorati con soda e profumi. La lavatrice non c'era, il bucato si faceva a mano. Mia nonna diceva sempre a noi bambini che se nella vita non sai fare, non sai comandare. Così, ci metteva a faticare. Andavamo al fiume con le donne del paese e, su piccole tavolette di legno, lavavamo i panni anche noi».

Dura, senza lavatrice.
«Faticoso, ma divertente; almeno a quell'età: tutto si trasformava in un gioco. La candeggina non c'era, per smacchiare i panni usavamo la cenere. Poi li sciacquavamo e li appendevamo agli alberi ad asciugare. Mi sembra di sentirlo ancora quel profumo di bucato fresco».

E la scuola?
«Diligente anche alle elementari, che ho frequentato a San Giovanni, prima di partire per New York. Tra gli insegnanti c'era pure mio zio Quirino, il più severo della scuola: tutti gli studenti avevano nei suoi confronti un timore reverenziale. Era il fratello di mio padre e noi nipoti pensavamo che avrebbe avuto un occhio riguardo. E invece, proprio perché nessuno potesse dire che godevamo di qualche privilegio, spesso ci trattava pure peggio. Non so quante bacchettate sulle mani ho preso». 

Una curiosità: ma se a 12 anni è andata a vivere negli Stati Uniti, suo marito Clemente dove lo ha conosciuto?
«Con zio Carlo e zia Ninuccia tornavo in Italia ogni estate, e una tappa a San Giovanni di Ceppaloni non mancava mai. Viaggiavo molto con loro, mi consideravano quasi una figlia, e ogni volta che partivano mi chiedevano di accompagnarli». 

Gli zii ricchi, per intenderci?
«Loro, esatto. Avevano messo su una fortuna. Una grande impresa che dava lavoro anche a tanta gente del nostro paese, costretta ad andare via proprio come a noi». 

Quindi, di suo marito si è innamorata durante una di queste vacanze?
«Le nostre famiglie si conoscevano da sempre, ma noi abbiamo cominciato a guardarci diversamente proprio a Oyster Bay, una volta che Clemente era venuto a fare visita a uno zio che pure viveva lì. Da quel momento, ci siamo rivisti ogni estate, fino a quando ho capito che volevo dividere la mia vita con lui. Così, ho preso il primo volo e sono tornata a casa». 
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