Al Mann «P.P.P.» Possibile Politica Pubblica, la mostra di Sasha Vinci

Particolare di "Ecco una terra non ancora colonizzata dal potere" (Foto di Giulia Iacobelli Zevola)
Particolare di "Ecco una terra non ancora colonizzata dal potere" (Foto di Giulia Iacobelli Zevola)
di Giovanni Chianelli
Mercoledì 16 Giugno 2021, 09:57 - Ultimo agg. 11:01
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Era da prima della pandemia che la mostra “P.P.P. Possibile Politica Pubblica” di Sasha Vinci era stata programmata al Mann. Disegno, scultura, performance, sound art e fotografia. Un omaggio a ogni musa per una mostra di grande impatto e potenza, curata da Maurizio Bortolotti e realizzata con la galleria aA29 Project Room. Solo in questi giorni ha potuto debuttare negli spazi dell’archeologico, dove resterà fino al 10 settembre; è al piano terra, nelle stanze che portano a quella del Toro Farnese per concludersi proprio davanti al celebre gruppo marmoreo.

Vinci, siciliano di Scicli, 41 anni, mette con umiltà le mani avanti: «Ho studiato oltre due anni come far dialogare le mie opere con quelle straordinarie donate dall’antichità e custodite al Mann. Lotta impari», sorride. Alto, chioma e barba rossa dei normanni di Trinacria, racconta il percorso racchiuso in 6 momenti.

L’inizio è tutto sul dedicatario dell’operazione, Pier Paolo Pasolini. La sua frase “Ecco un territorio ancora non colonizzato dal potere”, che il regista e poeta di Casarsa riferiva al corpo, campeggia su un lunghissimo tappeto rosso, manifesto dell’itinerario e quasi invito al viaggio. Dopo, ne “La torre del tempo”, la scena è tutta per uno dei segni ricorrenti nella mostra, il dodecaedro. L’autore lo fa corrispondere alla vita, nella sua prima apparizione è rappresentato diverse volte, a formare una piramide su cui appaiono le immagini più varie: bambini, animali, scene di gruppo. Tutti disegnati su carta cotone con inchiostri naturali.

Si passa oltre e arriva l’altra figura chiave: la piuma. «Simbolo della leggerezza e al contempo della tangibilità, la lego alla mia infanzia, quando la vedevo apparire sui cappelli delle donne.

La inseguo spesso, nelle mie creazioni», racconta Vinci. Qui, nell’opera “Il gioco della deriva”, le piume compaiono in cima a un nuovo dodecaedro, stavolta una scultura in ferro, lo stesso materiale della statua affianco, una sorta di busto cosparso di piume, di nuovo, e foglie.

Poi “Canta Napoli”, la dedica al luogo che lo ha ammaliato al punto di resistere al virus e al tempo pur di potervi collocare la sua esposizione. Su un blocco di alabastro Vinci – che è anche musicista - ha inciso lo skyline della città e ha tirato fuori, da quella linea sbilenca, una traccia musicale che fa ascoltare al pubblico. Il suono che fa il cielo di Napoli in questa sua traduzione anomala è clamorosamente ritmico, prevalgono le percussioni rombanti, e non poteva essere altrimenti, mentre il gioco che crea il blocco candido è sorprendente, nel confronto con le statue classiche attorno.

Sullo stesso principio è basato il penultimo passaggio del percorso: una fotografia in cui Vinci ha ritratto la propria mano, la stessa che manca a una statua accanto. Nella mano stringe l’amica piuma, così come da altre piume e dodecaedri, uniti da un palo di metallo, è caratterizzata la chiusura, “Non tocca terra la parola”, che si dipana davanti al Supplizio di Dirce: «Un bosco, un labirinto, una strada verso una vita diversa da quella di un’Italia contemporanea sommersa da edonismo, conformismo e immaturità politica. La strada che Pasolini tentò invano di suggerire tramite il suo pensiero e la sua arte».

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