L'arte sacra, la «lingua» del dialogo tra terra e Cielo

Un momento del convegno
Un momento del convegno
Martedì 10 Maggio 2022, 18:24
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Il dialogo che passa (anche) per l'arte, come un canto della terra al Cielo. «Questo convegno - ha sottolineato Giorgio Agnisola - non ha avuto l’obiettivo di fornire soluzioni ma di far emergere nuove domande e aprire nuovi orizzonti per la ricerca e il dialogo futuri. Ecco perché abbiamo voluto fortemente coinvolgere gli artisti e creare gruppi di lavoro per i partecipanti. Anche questi contributi entreranno a far parte della pubblicazione degli atti».

Si è conclusa la due-giorni «Quale arte sacra oggi?», promossa dalla Scuola di Alta Formazione di Arte e Teologia (Safat) della Pontificia Facoltà dell’Italia Meridionale (Pftim) sezione San Luigi, in collaborazione con la Fondazione Culturale San Fedele di Milano e con il patrocinio della Fondazione Posillipo.

Ad aprire la due-giorni i saluti della condirettrice della Safat, Giuliana Albano, del decano della Pftim Sezione San Luigi, Mario Imperatori sj, e del preside della Pftm don Emilio Salvatore. «Questo convegno – ha sottolineato la Albano – è il primo del 2022 ed è anche il primo completamente assunto dalla Sezione San Luigi e dalla Pontificia Facoltà dell’Italia Meridionale». La Scuola, ha infatti aggiunto padre Mario Imperatori «è ormai istituzionalmente inserita a pieno titolo all’interno della nostra Sezione. Proprio mercoledì il Consiglio di Sezione ha dato la sua approvazione alla versione definitiva degli Statuti della Scuola, nella convinzione che essa costituisce una preziosa finestra sul mondo che ci circonda, anche grazie alle molteplici collaborazioni cui ha saputo dar vita». La Scuola di Alta Formazione di Arte e Teologia, ha concluso il preside Emilio Salvatore, «all’interno della complessa realtà della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, costituita da molteplici articolazioni dedite non solo all’insegnamento ma anche alla ricerca, costituisce una punta avanzata della nostra idea di teologia intesa, alla luce dei criteri indicati da papa Francesco nella Veritatis Gaudium e proprio qui ribaditi il 21 giugno del 2019, non come trasmissione di un sapere ma condivisione di una ricerca, contrassegnata dal dialogo».

La stessa nascita dell’arte sacra cristiana può esser ricondotta ad un dialogo, quello con Dio a partire da una ‘pietra tolta’, da un ‘sepolcro vuoto’. «Molti esegeti - ha messo in evidenza il direttore della Safat, Jean Paul Hernandez sj, nel suo intervento Fare memoria del passato per elaborare il presente - ci spiegano infatti che nei primi anni della primitiva comunità cristiana di Gerusalemme era nata l’usanza di recarsi la mattina presto alla tomba di Cristo.

Essa veniva probabilmente fatta visitare vuota e in essa si ascoltava liturgicamente l’annuncio della Risurrezione, proclamato da un celebrante, diventato ‘l’angelo’ nei nostri racconti evangelici. L’arte sacra cristiana nasce dunque per il kerygma di Pasqua, anzi come parte integrante del kerygma di Pasqua. L’assenza diventa la promessa per eccellenza di una in-immaginabile presenza. E questa promessa è la relazione che permette di guardare ogni vuoto della terra come ‘segno’ del Vivente. L’arte diventa ‘arte sacra cristiana’ quando permette questa trasfigurazione».

Le voci di critici d’arte, artisti, filosofi, liturgisti ed esperti del settore si sono susseguite nelle tre successive sessioni di lavoro, articolate secondo un approccio interdisciplinare dai direttori scientifici del convegno, Giorgio Agnisola e Andrea Dall’Asta sj.

Particolarmente intenso il dialogo con Nicola De Maria, Ettore Frani, Giovanni Frangi, Bruna Esposito, moderato da Giorgio Agnisola, coordinatore dell’area di ricerca della Safat. I quattro artisti sono stati invitati a condividere la loro esperienza con ‘il sacro’ che, per Bruna Esposito, è stata caratterizzata da «un ascolto senza pregiudizi del luogo dedicato, della comunità, dell’architettura. Tracce seguite come un segugio»; che Giovanni Frangi porta avanti con libertà «perché un artista deve seguire la sua via, non può alterarla. E la questione del dialogo arte-chiesa nasce da qui»; che per Nicola De Maria è invece «un chiudersi dentro e aspettare, attraverso la parola che viene direttamente da Dio, aspettare la vocazione perché la materia diventi colore e forma; se incontriamo la vocazione allora si può ancora lavorare accanto alle reliquie»; che per Ettore Frani è preghiera, perché «per me la pittura prima di essere un modo di organizzare la forma è un percorso di trasformazione, di confronto con il senso insondabile della vita. La pittura è legata allo stupore ontologico dell’esistenza, una pratica intima legata al sentimento religioso che ho per la vita».

Un confronto, quello della seconda sessione, che ha avuto l’obiettivo di «sottolineare – ha spiegato Agnisola – la necessità di cambiare approccio rispetto alla questione del rapporto fra arte e fede, fra arte e liturgia, ma in generale rispetto al rapportarsi della chiesa con il mondo dell’arte. Questo è il tempo di domandarci ‘cosa l’arte possa dire alla fede’ e non ‘cosa la chiesa possa dire all’arte’. Un cambiamento di prospettiva che, nel rapporto tra arte e liturgia, non può non partire dal presupposto che il contributo dell’arte al contesto liturgico si lega al suo essere strumento di rivelazione dell’oltre. Nonostante i significativi discorsi dei recenti pontefici, da Paolo VI a papa Francesco, la carenza di un autentico dialogo tra gli artisti e la chiesa è tuttora viva. Così come ha mostrato attraverso numerosi esempi Andrea Dall’Asta sj nella sua riflessione, «anche negli spazi più importanti dal punto di vista storico religioso, gli interventi nelle nostre chiese antiche e contemporanee sembrano dettati da improvvisazione e dilettantismo, annunciati da grandi concorsi dagli esiti tanto incerti quanto mediocri e… prevedibili. Inoltre, non c’è alcun tipo di analisi critica sull’infinita quantità di immagini che vengono prodotte, per cui nessun dibattito può essere previsto. Di fatto, l’arte ecclesiale non ha alcun contatto significativo con l’arte ‘ufficiale’. Perché le immagini sacre contemporanee che affollano le nostre chiese appaiono così artificiali, dilettantesche e amatoriali, frutto di una ripresa necrofila del passato? È semplicemente cattivo gusto o piuttosto occorre ammettere la sfiducia della Chiesa di oggi che il Vangelo possa fecondare e animare la cultura del nostro tempo?».

«Attraverso la testimonianza di protagonisti del panorama artistico e culturale è possibile esplorare i modi di sentire la bellezza, sia in chiave religiosa che propriamente artistica - ha commentato la professoressa Albano, che ha coordinato la terza sessione, quella del sabato mattina -. Non a caso la scelta dei nomi si è ispirata alla necessità di creare ponti fra le diversità, ossia di far emergere l’intercultura intesa come processo d’integrazione e arricchimento reciproci».

Circa cinquanta gli iscritti online e cento quelli in presenza. Questi ultimi sono stati coinvolti attivamente nei lavori attraverso cinque gruppi di confronto dedicati a L’immagine tra idolo e icona, Quale arte negli edifici ecclesiali?, L’arte liturgica tra passato e presente, Arte liturgica: tra figurazione e non figurazione, In che senso l’arte liturgica è un luogo teologico? e coordinati, rispettivamente, da Luigi Territo sj (Pftm Sezione San Luigi), Emanuele Gambuti (Safat), Davide Dell’Oro sj (Safat), Jean Paul Hernandez sj e Nicola Salato ofm cap. La sintesi di quanto emerso da ogni gruppo è stata riportata dai moderatori in assemblea.

«Concludiamo questo convegno con la convinzione che da parte della comunità ecclesiale occorra puntare sulla formazione - ha aggiunto il professore Dall’Asta -. Sulla formazione estetica che è davvero lasciata all’abbandono. Serve educazione allo sguardo. Il ‘mi piace’ e il ‘non mi piace’ non può essere criterio ‘per arredare spazi', espressione usata ma che aborrisco. Gli spazi sacri non si arredano e l’educazione allo sguardo richiede fatica, sensibilità, lavoro, conoscenza di se stessi e degli altri. Educare allo sguardo richiede coraggio. C’è un’immagine che mi accompagna da anni, - ha continuato - commentata da Basilio il Grande e ripresa da papa Ratzinger: quella di Amos coltivatore di Sicomori. Chi è il coltivatore di sicomori? È colui che ad un determinato momento della maturazione del frutto compie su di esso un’incisione perché da quel frutto fuoriesca il succo cattivo. Grazie a questa “ferita”, il frutto può diventare commestibile e buono. E quell’incisione è il Logos, la Parola di Dio che si fa carne. Questa Parola separa, risana e purifica. Mi immagino l’arte come quel frutto dopo l’incisione. L’esperienza estetica nasce da questa ferita che permette di trasformarci, affinché ci poniamo correttamente le domande fondamentali dell’esistenza e le interpretiamo con i linguaggi dell’oggi. E oggi, occorrono tanti ‘coltivatori di sicomori’, che intervengano con competenza, conoscenza dei frutti e del loro processo di maturazione».

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