Magda Szabò e Lolò, principino ribelle: ritorna la fiaba rivoluzionaria della grande scrittrice ungherese

Magda Szabò e Lolò, principino ribelle: ritorna la fiaba rivoluzionaria della grande scrittrice ungherese
di Donatella Trotta
Lunedì 2 Novembre 2020, 14:13
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I classici sono libri che non hanno mai finito di dire ciò che hanno da dire, ci ricordava Italo Calvino motivando il «perché leggere i classici». Libri per i quali, aggiungeva, non solo «ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima», ma «ogni prima lettura è in realtà una rilettura»: entrambe in ogni caso necessarie, per la ricchezza di stimoli con cui sollecitano i fruitori. Di ogni tempo e di ogni età. E ha appunto il sapore (e l’incanto) di un classico della letteratura per tutti, non soltanto per l’infanzia, Lolò, il principe delle fate di Magda Szabò (1917-2007): pubblicato la prima volta nel 1965, arrivato in prima edizione integrale italiana nel 2005 e ora opportunamente ripubblicato in una elegante veste grafica illustrata con gusto d’antan in una seconda edizione riveduta, a cura di Vera Gheno con una partecipe Postfazione della scrittrice Antonella Cilento (Anfora edizioni, pagg. 256, euro 16,90, illustrazioni di Ivett Lénàrt e Réka Imre), che valorizza quest’opera di una delle più importanti (e tradotte) scrittrici ungheresi, a lungo perseguitata dal regime comunista.

Un romanzo allegorico atemporale ma sempre attuale, nelle metafore che sottende con uno stile immaginifico e potente (ben reso nella sorvegliata traduzione) e con un intreccio incalzante: perché nel principino innocente e ribelle della fiaba per tutti dell’autrice magiara sembra di intravedere le stesse passioni civili che a fine anni ’50 animavano le avventure del rodariano Cipollino, protagonista di una epopea vegetale altrettanto rivoluzionaria contro ogni potere autoritario fondato sulla prevaricazione e l’ingiustizia. In entrambi i (grandi) autori, che sanno parlare senza confini di libertà al cuore di tutti (adulti e bambini: come ogni buon libro della “letteratura che resta” sa fare), è infatti quella che Azar Nafisi chiama l’«immaginazione eversiva» a trasformare con la sua energia situazioni, cose e creature. Lolò, il piccolo antieroe della storia, è un “fatino” dal cuore umano, troppo umano che aspira a diventare un bambino del mondo reale: «non era un fatino regolare: voleva sempre fare cose diverse da quelle che si addicono alle fate», avverte l’Autrice sin dal primo capitolo delle sue avventure, in una saga di magico realismo costellata di colpi di scena e personaggi che restano impressi nella memoria.

Tra i tanti, la dolcissima e irresoluta mamma single di Lolò, Iris, regina delle fate in un mondo a parte dove la felicità e l’armonia – connaturate all’immortale dimensione fatata – rischiano di essere minate dalla banalità del male che persino lì alligna minaccioso in personaggi oscuri, ottusamente assetati di potere e incapaci di provare sentimenti: come il mago assai dark Aterpater, avido, ambiguo e perverso, al quale si contrappone il leale e coraggioso capitano delle guardie del regno, dal nome mediterraneo (Amalfi), che ama sinceramente madre e figlio cercando di proteggerli; o alcuni umani (uno scrittore, un artista con la sua nipotina orfana dei genitori, che attraverso una serie di vicissitudini diventa amica di Lolò) che poi sono gli unici della nostra specie a potersi accostare all’inaccessibile reame fatato perché portatori di uno sguardo libero e di un pensiero divergente (tipici dell’infanzia, dell’arte, dei “disobbedienti civili”).

E con loro, molti altri indimenticabili personaggi che affollano un corposo romanzo ai confini tra fiabesco e fantastico, capace di offrire al lettore non pochi messaggi subliminali senza alcuna retorica, ma con il fluire coinvolgente di una narrazione di qualità, pervasa di poesia e di ironia.

Un recupero prezioso di un fiabesco dal timbro universale nell’accezione che ne dava, fra gli altri, Gianni Rodari (grande intellettuale del Novecento di cui ricorre quest’anno il centenario dalla nascita) nel 1970: «Le fiabe sono alleate dell’utopia, non della conservazione. E perciò [...] noi le difendiamo: perché crediamo nel valore educativo dell’utopia, passaggio obbligato dall’accettazione passiva del mondo alla capacità di criticarlo, all’impegno per trasformarlo». E un rilancio concreto della potenza del fantastico come “soglia” (Romolo Runcini), oltre che come narrazione generativa “di” e “per” outsider capaci di creare vita dalla vita, come si legge in un bel volume critico sul tema, da poco uscito proprio in omaggio al compianto studioso, a cura di Maria Teresa Chialant e C. Bruna Mancini (Declinazioni del fantastico. La prospettiva critica di Romolo Runcini e l’opera di Edgar Allan Poe, Liguori, pp. 184, euro 19,90), riesce allora a sprigionare davvero empatia tra narratore, personaggi e fruitore/lettore. Esorcizzando, attraverso una sapiente intelligenza emotiva, il male. E la paura. Grazie alla costruzione di ponti - pensati e pensanti - tra mondi paralleli. Ma senza fughe dalla realtà in dimensioni banalmente consolatorie di intrattenimento di massa, praticate oggi da tanti maldestri epigoni di uno stucchevole fantasy: al contrario, scavando nel nocciolo di buio del cuore umano, oltrepassando la linea d’ombra tra bene e male, accendendo passioni per costruire etopie e rendere infine la realtà migliore. Più umana.    

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