«Musicanti» alla corte di re Pino: il tour comincia con un trionfo

«Musicanti» alla corte di re Pino: il tour comincia con un trionfo
di Federico Vacalebre
Domenica 9 Dicembre 2018, 14:30 - Ultimo agg. 10 Dicembre, 17:44
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Quei «Musicanti» li conosciamo bene, hanno accompagnato o Jammone in decine di concerti, su decine di palcoscenici. E ora si sono fatti teatranti, anzi no, restano lazzari felici, «musicanti senza permesso e ce guarda'», anche perché non hanno nemmeno bisogno di guardarsi per passare da una ballata acustica a un funky trascinante, ribadendo che Pino Daniele è «Tutta n'ata storia». La band è l'arma vincente di «Musicanti», il musical che ha debuttato trionfalmente l'altra sera a Napoli, in quel Palapartenope che del Nero a Metà fu casa sin dai primi tempi, dove ogni anno si celebra il suo compleanno/onomastico, dove quello che era il suo camerino resta chiuso in segno di devozione. Fabio Massimo Colasanti, che con l'Uomo in Blues ha collaborato sino alla fine e ne ha rilevato lo studio di registrazione, clona sulla chitarra il piglio del maestro-amico che non c'è più, circondato da un manipolo di altri storici compagni di session del cantautore: Alfredo Golino alla batteria, Elisabetta Serio alle tastiere, Hossam Ramzy alle percussioni, più Roberto D'Aquino al basso, Simone Salza al sassofono, Fabrizio De Melis al violino. Dall'incipit delicato di «Maggio se ne va» al bis scatenato e corale di «Yes I know my way», sono loro il motore di quest'avventura, riconsegnando al pubblico un neapolitan sound in piena forma, stiloso, groovoso, corposo, ora filologico, ora pronto a prendere le debite distanze da un modello inarrivabile.

I protagonisti, più dei personaggi che Alessandra Della Guardia e Urbano Lione fanno muovere nel loro testo che è mero pretesto didascalico, sono le canzoni stesse di Daniele, che irrompono in scena illuminandola, rivelando nuove nuances liriche, scandendo la narrazione con la veracità postmoderna di una scrittura scabrosa quanto necessaria.

La regia di Bruno Oliviero fa muovere, nelle tradizionali scene di Carlo De Marino, l'ennesima storia di isso (Antonio, che torna a Napoli per ereditare un locale musicale da un padre che non ha mai conosciuto), essa (Anna, che del Uè Man è la cantante/regina) e o malamente (o Scic, malavitoso pronto a mettere le mani sul club per riprendersi anche la ragazza) che si muovono in una Napoli anni 70, con tanto di precipitoso happy ending e inno al potere della musica e ai buoni sentimenti. Senza voli pindarici né azzardi tecnologici, leggerino nella drammaturgia (davvero serve bersi una tazzina di caffè sulle note di «'A tazzulella e caffè»?), il musical gioca tutte le sue carte sull'impatto sonico, che al Palapartenope è moltiplicato per mille: il pubblico accompagna spesso i pezzi come in un coro danieliano a bocca chiusa, prima di andare via non può fare a meno di urlare il proprio esorcismo come uno sparo nella notte: «Pino, Pino, Pino».

Il cast suda le fatidiche sette camice, con alcune prove individuali di spicco: in primis Leandro Amato, un irrefrenabile quanto schizoide Scic a metà strada tra John Travolta, Pino Mauro e John Turturro; Maria Letizia Gorga è una ieratica Donna Concetta, «tuppo niro» dentro cui «ci stanno tutt'e paure e nu popolo ca cammina sotta o muro», voce profonda che ogni tanto si lascia prendere la mano dal modello desimoniano; Alessandro D'Auria è un Antonio fisicamente d'impatto; Noemi Smorra una Anna credibile blueswoman verace. Pietro Pignatelli (Dummi') guarda al De Niro de «Il cacciatore» per urlare «Je so pazzo», Simona Capozzi (Rita) è delicata in «Sulo pe' parlà», Francesco Viglietti (una Teresina ispirata a «Chillo è nu buono guaglione») gioca tra Mastelloni e Barra, Enzo Casertano (Tatà) troiseggia, Ciro Capano è un infido notaio e un tenero nonno. «Napule è», «A me me piace o blues», una strepitosa «Terra mia», «Bella mbriana», «Chi tene o mare» sono balsamo sulle ferite dei «Musicanti» orfani del Mascalzone Latino.
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