Campania Teatro Festival al via, Cappuccio: «Così la cultura rinasce dopo il Covid»

Campania Teatro Festival al via, Cappuccio: «Così la cultura rinasce dopo il Covid»
di Luciano Giannini
Giovedì 10 Giugno 2021, 20:22 - Ultimo agg. 20:45
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È stato riconfermato fino al 2024, Ruggero Cappuccio, alla guida del «Campania teatro festival», al via sabato a Napoli con svariate mostre, Eduardo De Crescenzo che canta per la prima volta i classici napoletani e, per la prosa, «La morte e la fanciulla» di Dorfman con la regia di de Capitani. Fino all'11 luglio gli spettacoli saranno oltre 160, moltissimi a Capodimonte, ancora di più cuore di questa edizione; otto i palcoscenici, con platee che vanno dai 100 ai 200 posti, la metà di quelli possibili senza restrizioni.

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Ruggero, il budget a sua disposizione?
«La Regione Campania è quella che investe più di tutte in manifestazioni del genere. Quest'anno ci finanzia con circa 5 milioni di euro, cui si aggiungono i 380.000 del ministero. Questa rassegna è un'eccezione e un esempio virtuoso: perché diamo lavoro a 1500 persone. E perché siamo al Sud, dove i festival sono morti o stentano. Ma al Nord, neppure la Lombardia può vantare iniziative simili. Oddio, io preferirei che ce ne fossero altre, perché creano economia pulita e, collaborando tra loro, danno forza agli artisti. Ma questo è un Paese autolesionistico, che avrebbe bisogno di una legge organica in grado di riordinare l'intero settore. Le iniziative locali solo soltanto lodevoli palliativi. Se in Francia un attore è disoccupato, lo invitano a insegnare in qualche accademia. In Italia resta a casa».


Quanto ha influito la pandemia sul cartellone? C'è un solo spettacolo di danza, a giugno gli ospiti sono più nazionali, o campani, che internazionali.
«Ma a Pompeii theatrum mundi, il 25 luglio, avremo Isabelle Huppert nel Giardino dei ciliegi di Checov, diretto da Tiago Rodrigues; e a settembre proporremo la danza di Papaioannou, una regia di Martaler e Marina Otero. Ovviamente, ora ho voluto dare attenzione alle compagnie italiane e campane, fermate dal Covid».


Spina dorsale del cartellone resta la drammaturgia contemporanea?
«Senza dubbio.

L'85 per cento degli autori è vivente. E anche qui siamo in controtendenza, perché in Italia prevale l'aspetto consolatorio della cultura. Nessuno è così stupido da pensare che Sofocle sia meno contemporaneo di Moscato, ma significativi esperimenti sui classici sono stati già fatti, mentre scarseggiano quelli sulle scritture di oggi. Dobbiamo offrire ai drammaturghi le occasioni per allenarsi, esattamente come ai calciatori».


Anche il nome della rassegna è cambiato: da «Napoli» a «Campania teatro festival».
«Perché è radicata in questo territorio. Io, poi, sono un appassionato dei villaggi, dei borghi, che sono il tessuto connettivo della nazione. Pensi a Santarcangelo, Montalcino, Todi, Benevento, Casertavecchia. I piccoli centri devono combattere contro lo spopolamento e l'insensibilità che minaccia il Paese. Salvando la centralità di Napoli, luoghi come Montesarchio, Pietrelcina, Solofra, Santa Maria Capua Vetere, Salerno, Caserta... meritano attenzione. Peraltro, siamo gestiti da una fondazione che si chiama Campania dei Festival, proprio perché nell'atto costitutivo si pensò di accendere più fuochi culturali, oppure di averne uno ampiamente diffuso sul territorio».


I temi degli spettacoli?
«Quello della giustizia, per esempio. E penso alla Morte e la fanciulla; al Museo del popolo estinto di Moscato; l'omaggio del teatro Totò a Peppe Diana; e quello femminile, anch'esso variamente declinato: Un'ultima cosa di Concita De Gregorio, Medea per me della Sastri; Heroides di Elena Bucci, Artemisia, Caterina, Ipazia... e le altre di Laura Curino. Ma il festival non ha confini e accoglie artisti tra i più vari: dallo scrittore Daniel Pennac, in una sua pièce su Maradona, a Marco Baliani; dallo psicanalista Massimo Recalcati alla coppia Lello Arena-Giovanni Block; poi Alessio Boni, Rigillo, Barra, Mastelloni, la Confalone attrice e autrice, Iaia Forte, Carpentieri, Zulù... Ma il festival non ha confini. E dunque, accoglie anche il mio progetto sui Borbone. A Vienna non si parla che di Asburgo, in Piemonte dei Savoia, a Ferrara degli Estensi, a Firenze dei Medici, e non mi pare che essi fossero angeli da beatificare. Dunque, perché non occuparsi della dinastia borbonica senza folklore, ma con sguardo scientifico e sereno?».


Pompei, alleanza importante col Teatro nazionale.
«Con il suo direttore, Roberto Andò, condivido da 30 anni punti di vista, stimoli, emozioni. La collaborazione è doverosa, costruttiva e molto semplice da realizzare. Si muove su un credo comune: incentivare le forze attraverso le sinergie fa bene alle compagnie e dà forza agli artisti».

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