«Il testo racconta le vicende di un gruppo di persone, pazienti e personale, di una struttura che accoglie malati con patologie rare in stato avanzato e terminale, per accompagnarli alla morte, ma senza forzature, senza aiuti. Non si pratica l'eutanasia, i pazienti aspettano di morire con la barba sempre fatta, sempre lavati, puliti. Sempre con dignità», spiega l'autore, l'emergente drammaturgo napoletano Fabio Pisano. Eppure, l'argomento, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra, se è vero che uno dei personaggi, Rohhad, chiede al fratello di staccargli la spina. «Io lo sistemo su un letto che è letteralmente sospeso in aria, come lui tra vita e morte», precisa Davide Iodice, il regista. E aggiunge: «Non sappiamo se il suo desiderio sarà esaudito». Lo spettacolo è «Hospes, - itis» (nominativo e genitivo della parola latina), Premio Hystrio 2019, e aprirà martedì la stagione del San Ferdinando, secondo palcoscenico del Teatro di Napoli - Teatro nazionale. In scena saranno 13 interpreti, tra cui quattro attori-musicisti (tastiere, violoncello, clarinetto, loop-station, giocattoli sonori e strumenti non convenzionali). Le video-proiezioni sono di Michelangelo Fornaro, animatore e scultore, che nel foyer della sala esporrà una installazione di argilla fresca, intitolata «Impermanenza», proprio per rilevare la vicinanza ai temi trattati nella pièce.
Iodice: «Ispirato a una vicenda personale di Pisano, il testo è una riflessione sulla malattia, la cura e la fine della vita. Io l'ho letto durante la pandemia, sentendo il profondo legame con i tempi che stiamo attraversando. Avremmo dovuto debuttare prima a marzo, poi, ad aprile, quindi a maggio scorso. Siamo a ottobre, speriamo sia la volta buona. La storia è ambientata il 31 dicembre, ultimo giorno dell'anno e, forse, dell'umanità. I personaggi si dividono in due gruppi: i sani, col direttore, il medico, l'infermiera, il factotum, che accompagnano verso la fine quelli del secondo gruppo, gli ammalati, che io ho reso comunque ricchi di ironia, se non di entusiasmo, e che inducono i sani a guardarsi allo specchio». C'è Purpura, per esempio, che «chiede al direttore di entrare nella stanza del desiderio irrealizzato, un arsenale delle apparizioni direbbe Pirandello, in cui ci si specchia nei propri desideri e nelle proprie frustrazioni. Lei vuole che il medico l'accompagni, suscitando in lui una crisi di coscienza, un conflitto tra la distanza deontologica che gli impone il ruolo e le istanze umane. C'è Rohhad, che implora il factotum, suo fratello, di interrompere le sue sofferenze; e c'è la Morte, una figura cruciale: recita anche le didascalie, cioè le intenzioni dei personaggi; nei suoi dialoghi col direttore evoca il rapporto che tutti noi abbiamo avuto e abbiamo ancora con lei in questa pandemia; si staglia in scena come operaia silenziosa, con camice nero, spazzolone per le pulizie... alla Kantor, e dirige gli attori, li muove, costruisce le scene, diventa voce recitante».
In un ospedale che è un non-luogo di morte, però, Iodice esalta più la vita che la sua negazione. «La domanda che mi pongo è: fin quando un'esistenza è degna del proprio nome?». Quando, cioè, si oltrepassa il limite tra vita all'altezza del nome e degradazione estrema delle vitali funzioni psico-fisiche? Anche qui il fantasma dell'eutanasia riappare inesorabile. Iodice: «Pisano conclude la pièce con una immane esplosione. Io ho scelto un finale, che non svelo, in cui metto in evidenza la relazione tra ciò che avviene sul palcoscenico e ciò che è avvenuto, e avviene ancora, nella realtà».
La scenografia, firmata da Tiziano Fario, chiude l'azione in un'ampia scatola di plexiglass trasparente, quarta parete compresa, una bolla senza né spazio né tempo. Il regista: «Io la vedo come una grande stanza degli abbracci... ricordate quelli negati dal virus?... dove gli ammalati si muovono su sedie a rotelle trasformate in oggetti e animali da giostra, per rimarcare il deragliamento infantile prodotto dalla malattia; e dove prendono corpo le video-proiezioni di Fornaro, con immagini di panorami e altre che a esse assomigliano: in post-produzione abbiamo lavorato su lastre radiografiche, notando la loro strana somiglianza con campi, montagne, alberi... la natura-natura si specchia in quella del corpo umano. O viceversa. Ma non aspettatevi uno spettacolo triste, perché vincono l'ironia e il registro grottesco. Il mio teatro resta una sorta di medicina dell'anima, un pharmacon, dove gli attori sono antidoti al male e invitano il pubblico a specchiarsi in se stessi e nella realtà in cui siamo immersi, con la speranza di uscirne definitivamente, al più presto».
Morale della favola? «Come diceva mio padre, che mi ha lasciato il mese scorso, bisogna attaccarsi alla vita fino all'ultimo».