Viaggio in Togo per la vita | Giorno 7, Agnese e il dolore di un popolo

Viaggio in Togo per la vita | Giorno 7, Agnese e il dolore di un popolo
di Nunzia Marciano
Giovedì 9 Agosto 2018, 16:14 - Ultimo agg. 10 Agosto, 09:14
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“Ho una gemella... Avevo. È morta. E poi altri fratelli. Ognuno è stato adottato. Io sono stata adottata da un frate italiano qui dell’ospedale, per questo parlo italiano. Non ho mai conosciuto mia madre o mio padre, sono sempre vissuta qui”. Agnese è un’infermiera africana, è stata un bel biglietto da visita dell’ospedale con il suo sorriso aperto, la sua risata fragorosa, le sue strette di mano vigorose e quegli piccoli ma intensi. Gli stessi che versano qualche lacrima mentre alle 7 di sera sorseggia una birra al bar di fronte l’ospedale: “Uno dei miei fratelli è stato adottato da un altro frate e un altro da una donna bianca. Io ringrazio tanto il mio padre adottivo”.

 

 


In Africa si ringrazia per ogni cosa, si ringrazia ogni giorno Dio e si accetta la sua volontà come unica alternativa. Le lacrime africane di Agnese ridimensionano quelle italiane che si pensa di dover versare. Sentir parlare Agnese senza la difficoltà di dover tradurre è molto istruttivo e ci vuole un attimo a passare dal suo dolore al dolore di un intero popolo: “Il Presidente che abbiamo è figlio del precedente ma è addirittura peggio: è stupido, è autoritario e sta chiudendo i nostri confini. Prima il Togo era molto più grande, ora gli altri paesi, il Benin e il Ghana, ne hanno preso pezzi facendolo essere sempre più piccolo e povero. Qui anche chi studia non trova lavoro a meno che non sei un medico già affermato che ti fa pagare le cure nelle sue cliniche private, dicendo che sono meglio di quelle pubbliche (come in Italia, insomma...) ma il Presidente non se ne cura. Il Ghana ad esempio è ricco, anche se non ha le nostre risorse. Ma sa sfruttarle, così come sfrutta il Togo”. Una guerra tra poveri in Africa, dove il più furbo a far soccombere il più debole insomma. “Noi non siamo contenti del nostro governo né della Francia, che ci sfrutta e basta. Non è la Francia che ha portato l’acqua nei nostri villaggi, non è la Francia che si cura di noi”. Il sorriso di Agnese si spegne mentre racconta i problemi del Togo e il discorso passa dalla situazione politica alle tradizioni dei luoghi. C’è talmente tanto da raccontare di queste terre. Agnese risponde alle domande incalzanti al tavolo con le birre e con gli italiani. E’ il mestiere impone che la curiosità imperversi nel discorso. “Cosa sono i segni sul viso di alcune donne? Sono segni orizzontali sulle guance e sulla fronte”.

L’occasione per vederli è stata la visita al centro di accoglienza per malati mentali. “Oh, quelli sono per l’appartenenza: era sicuramente del Benin”, spiega Agnese, “in Benin” aggiunge, “si pratica l’infibulazione”: per colpa di quella pratica atroce, molte donne non vanno in ospedale per non farsi vedere, “perché si vergognano”, dice Agnese. Chiara le chiede perché ci si tatui nome e un numero sull’avambraccio: lo aveva visto su una donna anziana, in ospedale: “Perché non sapeva scrivere e perché se le succedesse qualcosa, hanno il suo nome e la data di nascita e possono cercare la famiglia con un annuncio radio”. A tutto c’è un motivo ed una spiegazione... Infine, le relazioni. E qui, ecco aperto il Mondo africano: “Qui un uomo può avere più mogli, ad ognuna da’ una casa e con ognuna fa figli ma le proprietà restano ai figli della prima moglie. Spesso quando ha troppe mogli e non riesce a mantenere i figli, ne da’ qualcuno a qualche parente per farlo lavorare o perché quello non ne ha avuti”. E le mogli? “Beh, all’inizio si resta un po’ così ma poi è normale e lui fa un po’ è un po’. A volte le donne restano sole e affidano i figli alle nonne per cercare uomini più ricchi”. “Come in Italia!”, i commenti si sprecano. E da Fausto e Roberto arriva un “Che bella vita in Togo!”. Ovviamente non lo è. Non lo è affatto. I toni e gli argomenti si alleggeriscono con la musica, con Agnese che chiede a Roberto se la prossima volta le porta le cassette di Eros Ramazzotti: lo ha ascoltato in Italia, lei c’è stata. E anche i canti natalizi, se può. La mattina seguente è zeppa di interventi e si arriva nel blocco operatorio di buon ora, dopo una colazione a base di latte, Malarone e caffè napoletano per il quale si ringrazia vivamente Dio. Suor Simona è già in sala operatoria. Sul tavolo c’è un bambino, avrà meno di un anno e una testa enorme, sproporzionata: è idrocefalo, vuol dire che il suo cranio è enorme perché i liquidi non vengono drenati dal cervello e si accumulano. La conseguenza è che il cervello è compresso e le funzioni sono compromesse. Tutto ciò che si può fare è drenare, per ridurre la grandezza. È già anestetizzato ma gli occhietti sono socchiusi. Sembra tra veglia e sonno. Fa tenerezza. Tanta. Dall’Italia chiedono se per un’italiana sia difficile stare qui: difficile qui è sopravvivere, non trascorrervi una manciata di giorni per poi tornare nella parte giusta del Mondo. Perciò no, qui non è difficile. Qui il cuore si stringe spesso. Ma non è difficile.

La mattinata dei chirurghi inizia con una grossa cisti sulla testa di una donna di cui si occupano Ida e Roberto, in una sala operatoria praticamente senza luce dove bisogna usare la torcia del telefonino. Le sale sono tutte più o meno così, si opera in condizioni precarie, aggiungendo difficoltà alle tante difficoltà congenite. L’intervento va per le lunghe, la mattinata va a rilento. C’è il tempo di ritornare alla maison per rinfrescarsi un attimo: oggi c’è afa. E per confrontarsi su quelle “disgrazie della vita in Italia” che qui assumono tutto altro valore. Si torna in sala; in programma ci sono altri tre interventi, uno in anestesia locale, due con la totale, di cui uno su una bambina. Il ritmo è serrato. Quella in locale, la fa Roberto. Ida e Fausto operano un’altra paziente. Da assistente a Roberto resta chi nella via racconta, e che oggi potrà raccontare di aver preso parte attivamente a togliere una cisti con meno punti possibili: “Così esteticamente è molto meglio”, spiega Roberto. Sul lettino c’è Michel, 60 anni circa, gentile e riverente, è sveglio. L’operazione è andata bene. Si esce a prendere un po’ d’aria. Arriva Germana: “Sai, la quella ragazza di cui vi avevo parlato, è mortastanotte”.

La ragazzina di cui parla, è una 15enne arrivata sabato, troppo tardi anche solo per diagnosticare la leucemia che l’ha uccisa. “C’è però un altro paziente, è ricoverato; ha 22 anni ma a causa di una malattia dei globuli rossi, sembra un ragazzino. Ha la drepanocitosi. Dovrebbe fare delle analisi ma non ha i soldi... So che tu avevi dei soldi, così”. Così... Non le si lascia nemmeno il tempo di finire la frase: sì, ovvio. Il tempo di andare in camera a prenderli. “Bastano 50€?” la domanda, “Ne servono 12”, la risposta. Ecco, in Africa una vita “costa” 12 euro. Si arriva in reparto dove fuori da una stanza c’è una bimba meravigliosa che ti sorride, anche se sei bianca e bionda e non ha mai visto prima una donna bianca e bionda. E si lascia fotografare. “Se gliene diamo 27, copriamo tutto”, dice Germana del paziente. Va bene, va benissimo. Ne lasciamo 30. Ecco, in Africa oggi si sono donati 30€ per salvare una vita, sorridendo ad una bimba bellissima e sana per la quale l’augurio è di non aver mai bisogno di 12 euro per sopravvivere. 
 

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