Viaggio in Togo per la vita, giorno 4 | La missione

Viaggio in Togo per la vita, giorno 4 | La missione
Lunedì 6 Agosto 2018, 16:37 - Ultimo agg. 7 Agosto, 14:04
6 Minuti di Lettura
Il cancello si apre all’arrivo del camioncino guidato da Suor Simona. Ci si aspetta di poter entrare ma un’ondata di bambini ne esce prima ancora che si sia scesi dal pulmino: hanno dei grandi sorrisi e si gettano letteralmente al collo, contenerli è impossibile. Sono tanti, per di più hanno un’età compresa tra i 4 e 10 anni. Ci sono anche bimbi piccolissimi e due ragazze più grandi. Sono tutti letteralmente rapiti dai telefoni e dalle macchine fotografiche e ci mettono 5 secondi netti a capire come funzionano. La strappano di mano facendo attenzione a non farla cadere e scattano foto. Qualcuno si mette in posa. Anche qui adorano essere fotografati. Qualcuno è un po’ in disparte mentre si entra nella struttura di accoglienza di Afagnan. Anche questa è gestita da Suor Simona, insieme ad altre sue suore italiane, una mamà Africana, due aiutanti e un direttore, con una sola gamba e due stampelle. Si chiama La Maison de la Joie - Abbi cura di loro Onlus. È stata fondata nel 2015. Ad oggi ospita 34 bambini. “Non sono orfani”, spiega suor Simona, “ma le famiglie non se ne occupano”. Il centro ha un grande piazzale e una zona coperta, un po’ più defilata, dove capeggia una grande lavagna. Tutto intorno ci sono i dormitori dei bambini che sono grandi stanzoni con lettini ordinati e culle che pendono dal soffitto per i piccolini. C’è anche Dolfìn, la ragazza che aveva accompagnato suor Simona al centro la mattina. Ha quasi 18 anni e uno sguardo così timido ed educato. Suona per i bambini che sotto la struttura coperta, accolgono con un ballo, mettendosi tutti in cerchio, ballando tra loro e facendo ballare tutti i presenti. Qualcuno resta in disparte. Hanno tutti degli occhi così grandi e penetranti e tutti hanno i capelli cortissimi. Qualcuno sta in disparte. Ce ne è uno, avrà al massimo 4 anni. Ha lo sguardo così serio. Non sorride ma guarda, non distoglie mai lo sguardo. Si lascia avvicinare. Ma non sorride mai. Tocca il cellulare e si lascia convincere a toccarlo. Senza proferire parola. Né un accenno di sorriso. Ma resta lì, immobile. La sensazione è di non averlo neppure sfiorato nei pensieri e invece a voltarsi lui è lì esattamente alle spalle e sorride prendendo un pacchetto di Tempo che gli si porgono. Sorride solo per un istante. Ma sorride. C’è una bimba, avrà un paio d’anni. È bellissima. È l’unica ad avere gli orecchini. Indossa un vestitino troppo corto, sotto non ha nulla. Si lascia avvicinare ma sembra terrorizzata da tutto. Si chiama Florance.
 
 

E poi c’è lui. È così piccolo, meno di un anno. È bellissimo, sorride tanto, resta in braccio tutto il tempo, anche quando si balla tutti insieme, è un po’ despota con gli altri bimbi ma fa grandi sorrisi, e ad una linguaccia per gioco risponde con una grandissima. Si innamora della videocamera e non c’è verso: deve guardarci attraverso con i suoi grandi occhi neri. Ha la sindrome di Down. È così bello. I bambini ridono di gusto, si divertono ad indovinare gli animali che mima Fausto. Si divertono tutti, Ida, Chiara, Germana. I bambini e gli adulti. Sono molto svegli i piccoli. Molto furbi anche. Dopo il ballo di gruppo, 4 o 5 di loro si esibiscono in performance da solisti al centro della struttura coperta: sono uno spettacolo. Dopo i balli, è tempo di aprire la grande valigia rosa arrivata direttamente da Napoli, quella con i giocattoli, i vestiti e i kit scuola. Quella con la normalità insomma. La posizionano al centro della sala e viene aperta: i bambini la guardano con una curiosità che commuove mentre aspettano che gli sia dato il permesso di avvicinarsi e quando quel permesso arriva è una gioia per il cuore vederli correre tutti al centro, frugando tra le cose, molte delle quali mai viste prima. C’è chi indossa un cappellino, chi scruta dei pastelli, chi abbraccia un bambolotto. Sembrano felici, anche se è quasi stonato parlare di felicità per 34 bambini ospiti di un centro di accoglienza che hanno alle spalle storie atroci. Il tempo scorre veloce a giocare coi i bambini e con i loro giochi nuovi. Ed è un tempo bellissimo. Qualcuno si fa scrivere sulla lavagna il proprio nome. Sanno scrivere e sanno leggere. E non è affatto poco.

Qualcun altro tira una pallina: è del Napoli, sopra c’è l’immagine di Lorenzo Insigne. La sensazione più forte poi è che ognuno si prenda cura dell’altro, senza distinzione. Arriva il tempo di andare e i grandi sorrisi diventano piccoli bronci e braccia che si agitano per salutare. E la parola che continuano a dire è “grazie”, di tutto. Se solo sapessero quanto loro hanno donato a chi viene a lontano con la loro gioia.... “Florance è figlia di due tossici che volevano buttarla in un pozzo. Per fortuna l’ha presa sua nonna ma non è riuscita a mantenerla e l’ha portata da noi”: è un’altra suora, italiana, a spiegarlo sulla via del ritorno, “qui è legale la poligamia è molto spesso quando le donne vengono abbandonate dai mariti, non possono stare senza un uomo ma il nuovo marito non accetta i figli già nati e così li abbandonano. Molti sono fratelli: Delfin è la prima di quattro fratelli, tutti abbandonati. Il centro comunque non è un orfanotrofio e ha un obiettivo preciso: reintegrarli nelle loro famiglie”. E chiedere quante volte ci siano riusciti è naturale: “Finora nessuna”, è la risposta, “e siamo aperti già da tre anni”. Ecco, questo è “difficile”. Capire questo è difficile. Non vivere in Europa, in Italia o a Napoli e lamentarsene. È chiaro che da qui le cose si vedano diversamente ma è chiaro anche che le scelte e i drammi della vita di chi è nato nella parte giusta del Mondo diventano così piccoli al cospetto di tutto questo, al cospetto poi di un lunedì mattina operatorio che inizia nel peggiore dei modi: la bambina di un mese e mezzo da operare al labbro leporino è sieropositiva. Tra i chirurghi, Ida e Fausto, cala il silenzio. Si ride molto con loro, ma stavolta le facce sono scure. Ida spiega che non è detto che poi diventi AIDS: “Se prende i medicinali, magari...” “Nunzia, tu non ti lavare”, Fausto aveva già avvertito.

La piccola è la seconda paziente della giornata, la prima ha 36 anni e una frattura mandibolare. Bisogno sterilizzare i ferri, bisogna tornare dopo un’ora. Intanto si fa visita ai post operatori: la bambina operata ieri ha la febbre alta, si teme sia malaria. Un test di due minuti simile a quello per il diabete, smentisce: si tira un sospiro di sollievo, almeno questo. Nel reparto pediatrico la sofferenza sembra un’ingiustizia ancora più grande: bimbi piccoli su letti troppo grandi che in alcuni casi ne accolgono l’agonia: è questo ciò che si vede in Africa, quel senso di impotenza e pietà che nessun racconto potrà mai davvero trasmettere. I ferri sono pronti, si torna in sala operatoria. In quella accanto arriva una donna incinta, pronta per un cesareo. È imperdibile l’occasione di assistere e di filmare una vita che nasce, ascoltarne il primo vagito. Riempie il cuore, quello che si era svuotato alla notizia di una piccolina già sieropositiva, perché i suoi genitori lo sono. Un semplice parto cesareo avrebbe potuto evitare il contagio ma è probabile che la madre abbia partorito normalmente. La paziente è pronta. Si opera. Essere una giornalista e partecipare ad un intervento è un’esperienza pazzesca, specie per chi da più di 10 anni gli interventi li vede in Grey’s Anatomy. Mantenere un respiratore o un divaricatore o assistere... Contribuire poco poco a migliorare una vita, non è descrivibile. L’intervento va bene. Adesso è tempo di operare la piccolina con il Labbro leporino, che qui è considerato “ghettizzante”. È tempo di alleviare almeno un pochino le sofferenze di cui è già così piena una vita appena iniziata. 



 
© RIPRODUZIONE RISERVATA