Viaggio in Togo per la vita, giorno 5 | Arrivare a fine giornata

Viaggio in Togo per la vita, giorno 5 | Arrivare a fine giornata
di Nunzia Marciano
Martedì 7 Agosto 2018, 16:36 - Ultimo agg. 8 Agosto, 10:46
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L’Africa è quel posto dove non sai se sia più difficile capire o accettare, soprattutto per chi non pensava che l’Africa fosse davvero così. In Africa la gente vive con lo scopo di arrivare a fine giornata, fa figli, tanti figli, per preservare la specie. “Solo all’ospedale Saint Jean De Deiu tra cesari e naturali”, racconta il primario di ginecologia, “ci sono circa 10 parti al giorno”. In Africa si vive o si muore a seconda dell’attimo contingente e se sia quello in cui ci si può permettere di curarsi indebitandosi, oppure no. In Africa il Mondo occidentale non ci arriva, no si fa domande, non si pone il problema, salvo poi scoprire che anche qui l’ansia è una malattia parecchio diffusa, come spiega Germana, “e io che pensavo che fosse una malattia europea, come lo stress. Poi mi hanno detto: “Provaci tu a morire di fame e poi me lo vieni a dire se non sei ansiosa o depressa”; in Africa ci si affida totalmente ad un Dio misericordioso anche se la misericordia umana qui non esiste; in Africa la malattia mentale non esiste, ma esiste la stregoneria; in Africa i figli si abbandonano per sopravvivere quando si è sole e un nuovo marito non accetta i figli già nati; in Africa una bimba di un mese e mezzo è sieropositiva perché lo è sua madre e nessuno ha pensato di farla nascere con un cesareo.

A proposito... Apeletè, così si chiama, sta bene: Ida e Fausto con i doppi guanti l’hanno operata. È bellissima e il suo sorriso lo sarà ancora di più. Era così piccola e indifesa su quel grande lettino operatorio, che la voglia di prendersene cura, era così tanta. Operare qui non è semplice: non lo è per il nichilismo congenito degli africani, non lo è per gli strumenti operatori che non esistono o più spesso, nessuno si preoccupa di tirare fuori da qualche scatolone. Non è semplice. Eppure Suor Simona è un fiume in piena: fa visitare i pazienti, fa fare consulti e programma interventi ad un ritmo altissimo. Fosse per lei, se ne farebbero molti di più. Ma anche la sua forza di voler fare di più, ad un certo punto deve fermarsi perché qui alle 15 si ferma tutto. È un portento Suor Simona. È già stato detto. È italiana ma se potesse scegliere indipendentemente dalle decisioni del suo ordine, in Italia non ci tornerebbe. L’Italia, quel posto dove i drammi sono così enormi a starci dentro e così ridicoli a vederli invece, dall’Africa. Qui in Togo è tutto così realmente complicato, tutto gira attorno al denaro, vero Dio in terra. Persino rinnovare un visto ha una procedura tale per la quale 9 volte su 10 non si fa in tempo prima della scadenza. E si paga. Per non parlare del come arrivarci all’ufficio visti: in auto, grazie ai frati, a 2 ore di macchina da Afagnan. E allora persino il dolore italiano assume tutto un altro valore, si ridimensiona e sorride amaro, per essere in quella parte del Mondo, l’Italia, dove il coraggio dovrebbe essere un diktat e la possibilità di essere felici un obbligo quasi morale. Il pensiero va a Florance, alla bimba del centro di accoglienza che i genitori volevano gettare in un pozzo. Va al suo sguardo basso, alla sua manina che prende quella che un adulto le porge più per inerzia che perché lo voglia e alle parole della suora: “Anche se sono piccolissimi, sono già psicologicamente distrutti”.
 

 

Florance ha meno 3 anni. L’Africa sembra avere bisogno di tutto, anche se spesso è il tutto del mondo civilizzato a mancare, più che di quello africano. Ma l’Africa è ricchissima di risorse, così tante che se le usasse per sé, non avrebbe bisogno di un solo euro di tutta la beneficenza che arriva dal resto del Mondo, una beneficenza che se però arrivasse davvero...
Lo sfruttamento dell’Africa passa anche dall’Italia e dalle tante Onlus e Ong che coordinano le numerose piccole Onlus africane: lo si capisce dagli ambulatori Unicef a pagamento e dal fatto che in tanti chiedano soldi ai volontari per partire in missione, “Anche 1.600 euro”, dice Germana per esperienza diretta. Sembra incredibile ma in Africa al peggio non c’è fine. Le giornate scorrono tra interventi con pazienti poco anestetizzati e la sensazione di non poter cambiare le cose e di doversi fermare impotenti. Come in Italia, spesso ma molto di più. In sala gli infermieri ridono parlando africano; gli si risponde ridendo in napoletano. Alla fine ridono tutti, per chissà quali motivi diversi. La sala operatoria è quello stesso posto dove la sola sensazione di un ago a bucare un guanto, fa battere più forte il cuore, fa allontanare dal tavolo e fa disinfettare. Tutto. E subito. In Africa la morte è qualcosa di latente, con cui si convive più che con la vita. E ogni vita salvata è un dono che gli africani accettano, come se fosse quello più inaspettato. E ringraziano, sempre, in francese. Se potessero farebbero un ballo di ringraziamento. Proprio come i bambini del centro accoglienza di ieri, a cui con regalando giocattoli, è stata donata un po’ di normalità. 

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