Viaggio per la vita in Togo, il diario sul Mattino.it

Viaggio per la vita in Togo, il diario sul Mattino.it
di Nunzia Marciano
Giovedì 2 Agosto 2018, 16:15 - Ultimo agg. 3 Agosto, 12:23
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«Riempite tutte le valigie, fino a che potete. Non portare troppe cose per voi che non vi serviranno. E quelle che vi portate lasciatele lì. No, ai medicinali ci penso io: voi portare giocattoli, vestiti e soprattutto kit per la scuola. Voi portategli un po’ di normalità». Sono precisi e categorici i diktat di Enzo Facciuto, chirurgo maxillofacciale dell’Ospedale A. Cardarelli di Napoli, ma soprattutto membro fondatore della Onlus “Life and Life” e più ancora, veterano dello slogan, ribaltato in positivo, “Aiutiamoli a casa loro”, dove “casa” è Afagnan, un paesino del Togo, a circa 60km dalla capitale Lomè, nell’Africa Subsahariana, dove i medici sono letteralmente angeli in camice verde, in luoghi dove nell’assurdo paradosso umano la sanità è privata, si paga per essere curati, insomma. Ed è parecchio facile immaginare di cosa si muoia laggiù: di povertà.

Facciuto questa volta non parte ma è lui l’anima che coordina la missione all’ospedale Italo-Francese Saint Jean de Dieu; 12 giorni, per salvare quante più vite possibili, 12 giorni per permettere a 3 chirurghi campani di attraversare il Mondo da Roma a Lomè con uno scalo di 5 ore a Casablanca, per salvare quelle vite, quelle dei bambini soprattutto, le più indifese e numerose vittime dell’insensatezza umana: “Portatevi soldi”, una delle raccomandazioni, “ma non dateli a loro: non gli cambiereste la vita. Dateli alle suore dell’ospedale che li stanno tenendo da parte per comprare apparecchiature o pagate voi gli interventi che non potete eseguire nell’ospedale: non dategli il pesce ma insegnategli a pescare”.

Il concetto è semplice: in Togo per vivere bisogna pagare. E si muore consapevoli della propria povertà. È raccapricciante: in Togo, così come in molti paesi lì vicino, si è sempre consapevoli delle proprie malattie ma si è anche consapevoli di non potersi curare. Lo sono i genitori che vedono i propri figli morire, accettandolo come volontà di un Dio. “Mi raccomando la profilassi per la malaria: va iniziata oggi, continuata durante tutta la permanenza e continuata una settimana dopo il rientro”: a dirlo nel gruppo whatsapp creato ad hoc è un altro chirurgo, Fausto Illiano. Lui parte. Lui e altri due chirurghi. Sono nove in tutto le vaccinazioni da fare prima di partire, tra obbligatorie e consigliate: malaria, febbre gialla, polio, meningite, pertosse, Epatite B, colera, Tifo, Tetano. “Il visto ce lo danno lì, in aeroporto”: strano ma vero, “Ah, e tenete a portata di mano la lettera di invito dell’ospedale che certifica che siete lì per una missione umanitaria: vi eviterà di dover pagare per entrare”. Niente da fare: ogni mondo è paese: anche in Togo c’è la mazzetta, e anche nell’ospedale di Afagnan c’è il solito traffichino, come avverte Facciuto:

“Si chiama Nicolàs, ha un chiosco di fronte l’ospedale, lì troverai anche la scheda telefonica, per internet. E le stoffe. Prendile che sono bellissime. Ah, portati una tuta operatoria: sì, lo so che sei una giornalista e che sarai lì per documentare la missione ma due mani in certe situazioni fanno sempre comodo. Scoprirai da sola quanto...” La sensazione è che servirà tutto in un posto in cui tutto è ciò che manca. Le uniche cose che hanno sono la fede, la speranza e la riconoscenza verso chi tende loro una mano, anzi due. Verso chi gli salva letteralmente la vita. “A Napoli si muore per ignoranza, lo sai? In Togo per povertà”. Sembra assurdo ma è così e ripetere il concetto aiuta a capire il rovescio del Mondo che gira al contrario: “È una corsa contro il tempo e la malattia è sempre più veloce di un intervento chirurgico”. Non è retorica spicciola: è la realtà a 6h di volo se fosse diretto. “Lì non troverete patetismo: troverete gente che convive con la morte e ringrazia per la vita concessa. Dovremmo farlo tutti”.

Sono parole, sono raccomandazioni, sono consigli su cosa portarsi e cosa no, su cosa mangiare e cosa no, sono i nomi di chi si trova già lì, due suore italiane a dirigere l’ospedale, una struttura ad ospitare chi va lì perché fare qualcosa per altri fa bene a se stessi.
Si sa. Le valigie sono pronte, una è uno zaino personale, due sono grandi, vecchie e strapiene: una di medicinali, l’altra di vestiti nuovi, giocattoli e kit scuola. Di normalità insomma, che ricorda tanto quella di uno smalto rosso che ha riempito le pagine dei giornali. La normalità, che cambia da paese a paese e in certi casi a seconda di quanto costi vivere.


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