Cristiana Capotondi: «Calcio misto per imparare l'uguaglianza»

Cristiana Capotondi: «Calcio misto per imparare l'uguaglianza»
di Romolo Buffoni
Mercoledì 28 Ottobre 2020, 10:36 - Ultimo agg. 29 Ottobre, 07:30
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Cristiana Capotondi, di professione attrice. In campo invece che ruolo ha?

«Nessuna qualità, solo tanta passione. Fin da ragazzina cercavo di infilarmi nelle partitelle dei maschi poi ho iniziato a mettere su squadrette con le mie amiche. Mi piace giocare esterno di difesa, come erano Cabrini e Maldini. Difendere, ma anche attaccare, quando ci riesco».

Una passione che l’ha portata, due anni fa, a diventare vice presidente della Lega Pro, la serie C maschile. Come ha fatto?

«Ho avuto l’opportunità di fare tante piccole attività con la Figc e con la Lega Pro della governance Gravina, poi con il recepimento delle direttive sulle quote rosa del Coni si sono creati i presupposti per l’ingresso delle donne in Leghe e Federazioni».

Un primo bilancio?

«Sono stati due anni belli e molto complessi. La Lega Pro è formata da imprenditori che cercano di restituire al territorio ciò che hanno avuto e oggi soffre come tutti i settori a causa del Covid. È uno specchio dell’Italia, completo e molto complesso, che include 15mila giovani dai 6 ai 19 anni».

Lei è anche capodelegazione dell’Italia femminile: è la donna più potente del calcio italiano lo sa?

«Scherza vero? Lasci stare. Ci sono donne eccezionali che sono da anni in Federcalcio e che svolgono un lavoro fondamentale. Il mondo dello sport genera una ricchezza di 3 miliardi di euro l’anno e accoglie volentieri la professionalità femminile».

È romana di Trastevere e tifosa della Roma, ma ormai ha l’efficienza di una milanese. Nostalgia della capitale?

«Da 14 anni vivo a Milano, ma continuo a frequentare la mia città che ritengo la più bella del mondo con i suoi colori, i suoi odori, la sua vicinanza al mare. In quanto alla Roma, beh: mio nonno Giorgio Capotondi aveva la tessera vitalizia numero 1. È lui che mi ha trasmesso la passione per il calcio. In quanto a Milano, mi ha accolto con grande calore e mi ha insegnato molto. Ci vogliamo un gran bene».

Come la mettiamo con la storia che “la cosa più bella di Milano è il treno per Roma”?

(ride)«All’inizio uno lo dice e lo pensa, poi però il trenino non lo prende più. Milano lavora per essere sempre al massimo, è come una proteina che possono assumere tutti. Anche per questo mi ci trovo a mio agio».

Sforzandoci di guardare al mondo post-Covid emerge la volontà della Ue e del governo italiano di favorire, attraverso il Recovery Fund, l’empowerment delle donne. Come si potrà concretizzare?

«Credo che ci dovrà essere un progetto culturale ad accompagnarlo. Intendo un processo di conquista di spazi sociali dove potersi realizzare come persone».

Nel senso che bisognerà andare oltre la questione di genere?

«È un processo già in atto.

Bisogna capire cosa s’intende per donna e femminilità e per uomo e mascolinità e non in termini di sessualità. Tutti abbiamo in noi una parte maschile e femminile. Io stessa sono “verticale” e non multitasking come la maggior parte delle donne. L’empowerment non deve far affermare le donne ma la femminilità, che è anch’essa una proteina. Molto utile di questi tempi».

Per una donna alla fine il rischio è che il bivio sia sempre lo stesso: lavoro o famiglia/figli non crede? «In effetti è probabile che il Recovery Fund punti anche a creare strutture di sostegno per aiutare la maternità. Germania e Francia hanno già investito in questo ambito e il loro tasso di natalità è in crescita».

Simone de Beauvoir, considerata la fondatrice del Femminismo, nel ‘46 disse: «Donna non si nasce, si diventa».

«Penso sia vero. E che anche gli uomini hanno davanti lo stesso percorso, che include la scoperta del proprio lato femminile. Sgancerei la frase dal Femminismo, che non ho vissuto e che ritengo faccia parte del passato. Ma la frase resta. È eterna».

E cosa resta invece del Me Too?

«Non so dal punto di vista politico e giuridico dove sia atterrato, ma ritengo che abbia contribuito a progredire verso la consapevolezza dei generi che va insegnata da bambini magari anche con il calcio misto. Maschi e femmine giocando in squadra insieme imparerebbero come anche nella vita siamo tutti mossi dagli stessi bisogni e obiettivi. Purtroppo c’è ancora da qualche parte una donna che per non rischiare di perdere il lavoro sopporta le angherie del capo, ma penso che il Me Too al netto dell’ipocrisia di chi si trattiene solo per il rischio di essere sanzionato, abbia contribuito a cambiare brutte abitudini e migliorare le relazioni».

Lei fa spesso riferimento alla persona, all’essere umano in quanto tale. Si rifà all’associazione culturale “Io sono” che ha fondato assieme al suo compagno Andrea Pezzi?

«Sì. Con lui condivido non solo la vita ma anche i valori. Volevamo creare un luogo dove coltivarli insieme. L’obiettivo è fornire un aiuto a una crescita culturale che riporti l’essere umano al centro, evitando che si faccia superare dalla tecnologia. Stiamo lavorando al Festival dell’Umano per il 2021, ci auguriamo possa alimentare il dibattito».

Nel prossimo film in uscita la vedremo nei panni di Chiara Lubich, madre del Movimento dei Focolari. Un ruolo apparentemente indietro rispetto all’empowerment femminile.

«Chiara Lubich fu una donna universale, una cristiana che con il suo ecumenismo in nome dell’Amore superiore capì qualcosa che negli anni Quaranta era difficile anche solo immaginare. Una donna del futuro, il cui messaggio purtroppo ancora non ci è arrivato». © 

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