Gian Carlo Blangiardo: «Donne più colpite dalla crisi del Covid: fragili sul lavoro e stressate a casa»

Gian Carlo Blangiardo: «Donne più colpite dalla crisi del Covid: fragili sul lavoro e stressate a casa»
di Maria Lombardi
Mercoledì 28 Ottobre 2020, 11:11 - Ultimo agg. 29 Ottobre, 07:00
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Le donne si ammalano di Covid meno degli uomini. Si diceva questo nei primi mesi della pandemia. Non è vero, le differenze «non sono significative», spiega il professor Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’Istat. È vero invece che le donne sono le più colpite dal virus, nel senso che pagano un prezzo particolarmente alto alla crisi. Sul lavoro, fragili per via dei contratti precari e impiegate in settori che più di altri stanno subendo le conseguenze dell’emergenza. In famiglia, con lo smartworking che per tante si è sovrapposto al resto degli impegni, stress su stress.

In che misura, professor Blangiardo, la crisi scatenata dal Covid sta colpendo le donne?

«Sul piano sanitario la recente indagine sulla sieroprevalenza, condotta da Istat e Ministero della Salute, non ha evidenziato differenze di genere significative. Mentre le conseguenze economiche del Covid sono state certamente più accentuate e penalizzanti per le donne. Per loro la perdita di occupazione è risultata più intensa, in quanto il settore più colpito è stato quello dei servizi - ristorazione, alberghi, turismo, famiglie - dove non solo le donne sono più presenti, ma anche più precarie e irregolari. Il problema è che già partivamo da una situazione critica: nel 2019 eravamo penultimi – peggio solo la Grecia - per tasso di occupazione».

Quali ostacoli andrebbero rimossi per incrementare il tasso di occupazione femminile?

«Il sovraccarico di lavoro di cura sulle donne è molto elevato, più che in altri Paesi. Il 67% del lavoro familiare, allorché una madre con figli è occupata, ricade sulla donna; e si arriva all’80% se si considerano attività come il pulire, lavare e stirare. I padri sono più coinvolti nel lavoro di cura dei figli ma soprattutto nel gioco, le madri nell’accudimento complessivo. Ci sono confortanti segnali positivi nelle nuove generazioni di padri, ma i cambiamenti sono lenti. I nidi coprono solo il 23% dei bimbi di 0-2 anni, in alcune regioni del Sud siamo sotto il 10%».

Se la percentuale di donne al lavoro arrivasse al 60% il Pil crescerebbe di 7 punti percentuali, secondo le stime di Banca Italia. Il Recovery Fund potrebbe aiutare a raggiungere questo obiettivo?

 «Certamente, se cresce l’occupazione femminile, diminuisce la povertà e si attenuano le disuguaglianze sociali. Sarebbe inoltre importante accrescere l’ingresso delle donne in quegli studi di materie scientifiche che permettono uno sbocco lavorativo più veloce e maggiormente retribuito».

Le donne guadagnano sempre meno degli uomini e questo non è più accettabile. Come ristabilire l’equità?

«La differenza di retribuzione tra uomini e donne non deriva solo dall’esistenza di discriminazioni salariali: è anche dovuta agli ostacoli che le donne incontrano nel corso della vita lavorativa. Entrano più tardi, si inseriscono in settori retribuiti peggio, hanno più interruzioni del lavoro, con i bambini piccoli ricorrono al part time, rinunciano spesso a incarichi impegnativi e così hanno percorsi di carriera più lunghi e difficili.

Sarebbe necessario intervenire per risolvere tutti questi aspetti».

Cosa rappresenta per le donne lo smart working? La possibilità di conciliare meglio lavoro e famiglia? O il rischio di finire stritolate tra figli e ufficio?

«In Istat abbiamo sperimentato diffusamente, in questi mesi, un lavoro da casa con uso di nuove tecnologie. L’esperienza si è rivelata funzionale e produttiva, oltre che necessaria. Penso che lo smart working vada visto come un’opportunità, sia per le donne che per gli uomini. Implica maggiore autonomia e responsabilizzazione, permettendo di conciliare meglio i tempi di vita. Al momento il lavoro in casa per le donne (lo ha fatto il 23% delle occupate) ha significato sovrapporre, anche come orari, lavoro retribuito e non retribuito, con il risultato di un forte stress. Ma in una situazione normale, con i figli che vanno a scuola, non sarebbe stato così. Lo smart working, gestito in modo flessibile e alternato a rientri, potrebbe diventare una grande opportunità per tutti».

Il declino demografico è una delle più grandi emergenze del Paese. Perché sempre più donne rinunciano ai figli?

«Il problema non è la rinuncia, bensì il rinvio della nascita di un figlio. Un rinvio, che è giustificato da una serie di fattori e di difficoltà “del momento”, che tuttavia spesso si protrae e si traduce in rinuncia definitiva. Il calo della fecondità è fenomeno complesso che ha molte cause: i figli costano, richiedono tempo e risorse, modificano i progetti della coppia e in particolare della donna. Senza adeguati sostegni e riconoscimenti, le coppie faticano a realizzare i loro progetti di famiglia. In molti casi si adeguano limitandosi al primo figlio, quando lo fanno, e talvolta al secondo. La scelta di un terzo figlio, strategica al fine di rialzare il livello medio della fecondità, è decisamente rara».

Un record negativo dietro l’altro.

«Siamo da oltre 40 anni con una fecondità al di sotto del ricambio generazionale (una media di due figli per donna) e da 11 anni il totale dei nati è stato continuamente decrescente. Nel 1964 si sono avuti in Italia poco più di un milione di neonati, mentre nel 2019 siamo arrivati a 420 mila. Per il settimo anno consecutivo abbiamo migliorato al ribasso il record del numero di nati nella storia d’Italia. E i primi dati del 2020, ancora non influenzati dal Covid, segnano un ulteriore calo nell’ordine del 3 per cento».

Quali misure si possono adottare per invertire questo trend?

«C’è bisogno di un intervento ad ampio spettro sul fronte delle politiche familiari: sostegno al costo dei figli, sviluppo dei servizi sociali e educativi per la prima infanzia, alleggerimento del carico di lavoro familiare per le donne, strumenti di conciliazione dei tempi di vita e un maggiore coinvolgimento dei padri nella vita familiare».

L’emergenza sanitaria per il Covid che conseguenze avrà sul calo demografico?

«Lo accentuerà per un paio di motivi: paura e incertezza sul fronte sanitario, e presumibili difficoltà nel lavoro e sul livello dei redditi familiari. È difficile fare previsioni, ma mi aspetto che già a dicembre, nove mesi dopo la grande paura di marzo, difficilmente avremo i tradizionali 35 mila nati mensili come è stato negli scorsi anni. Il rischio di scendere sotto le 400 mila unità annue già nel 2020 non è remoto. Quanto al 2021 sarà soprattutto il contesto economico a determinare il risultato».

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