Se gli adolescenti cercano rifugio negli psicofarmaci

di Andrea Di Consoli
Mercoledì 1 Febbraio 2023, 00:00 - Ultimo agg. 06:00
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Aumenta il numero di adolescenti che fanno uso non medicalmente assistito di psicofarmaci. L’allarme è della Sinpf (Società neuro-psico-farmacologia), che ha quantificato una crescita del fenomeno del 15% negli ultimi 5 anni. 

Gli psicofarmaci, che alcuni ragazzi iniziano a usare già a 13 anni, servono principalmente per rilassarsi, superare esami, stordirsi, dormire e dimagrire. La maggioranza di questi adolescenti, precisa la Sinpf, trova gli psicofarmaci in famiglia, altri li acquistano online, altri ancora li reperiscono tra amici. È un fenomeno importante, che va analizzato con serietà e con sincerità. 

L’adolescenza è da sempre un periodo difficile della vita. Si ha paura del futuro, non si è certi di ciò che si è e si vuole diventare, spesso ci si sente inadeguati, goffi, sbagliati, strani, diversi. È un periodo di finte spavalderie e di grandi insicurezze. A questo bisogna aggiungere l’aggravante, per gli adolescenti di oggi, di vivere in una società ferocemente competitiva, dominata da modelli “vincenti” quasi sempre fondati sull’estetica e sul danaro, e dunque su aspetti che prestano poca attenzione alle reali dinamiche dell’anima e del corpo. Facile, in un simile contesto, sentirsi in ansia, a disagio, e pensare di essere dei falliti. 

Gli psicofarmaci sono una grande invenzione della medicina moderna. Se oggi le psicosi, le ansie ossessive, le depressioni e le sindromi bipolari sono meno debilitanti rispetto al passato lo dobbiamo anche, e soprattutto, all’uso di farmaci sempre più efficaci. Ma gli psicofarmaci, al di là degli effetti collaterali, vanno presi con cautela, perché rischiano, laddove non siano necessari, di far credere a chi li usa che senza di essi non possa vivere. In sostanza, il rischio è quello di infragilirsi ancora di più, e di non avere nessuna capacità di elaborare in autonomia sintomi come l’insonnia, l’ansia, il panico, l’angoscia e la timidezza, che non sempre sono segno di una patologia, ma espressioni dell’inevitabile malessere a cui espone la vita, che è sempre difficile.

Il tramonto del religioso, il rifiuto della natura, stili di vita sbagliati e una società ferocemente competitiva hanno aumentato i casi di disagio psichico. Che noi adulti risolviamo, per non perdere tempo con una serrata e coraggiosa autoanalisi, ricorrendo agli psicofarmaci. I ragazzi però ci osservano, e imparano sin da piccoli che quando c’è un’ansia, una paura, uno scoramento, un qualcosa che non va, basta ingoiare qualche goccia o una pillola e tutto sembra andare meglio. Ma se questo è vero e giusto per i casi gravi di disagio psichiatrico, diventa pernicioso nei casi di malessere gestibile, perché non sempre il malessere psicologico è patologico. 

A leggere il Dsm (il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali), che è la Bibbia della psichiatria contemporanea, ci si accorge di una cosa abbastanza agghiacciante: che quasi ogni comportamento umano sarebbe in qualche modo patologico.

Non c’è una sola persona al mondo che, leggendo il Dsm, possa trarre di sé un’opinione di perfetta salute mentale. Senza prendere in considerazione gli interessi che le case farmaceutiche hanno a incrementare il numero delle patologie, è evidente una tendenza a patologizzare le emozioni. E la conseguenza di ciò è una sorta di analfabetismo emotivo di massa. 

I famigerati influencer dicono sempre ai loro coetanei che se ci credono ce la faranno, che i sogni si possono realizzare, che solo chi non vuole non riesce ad avere soldi e successo.

Ecco, non è vero. Questi influencer dicono un sacco di menzogne, e noi adulti dovremmo dirlo con maggiore determinazione. Il tema non è farcela. Il senso della vita non è farcela, ma accettarsi, dialogare, raccontarsi, saper godere di ciò che si ha e si è, amare, trovare persone con cui condividere le cadute, le paure, le difficoltà, i sogni, avere amici, rispettare gli altri per come sono e non in base a “valori” che hanno stabilito a tavolino gli strateghi del marketing, quelli che usano un sacco di parole in inglese ma che, quando li ascolti, senti che nelle loro parole non c’è mai un’anima, ma solo interesse, cinismo e vacuità.

Prima di ogni cosa dovremmo imparare noi adulti a riconnetterci con maggiore coraggio con la nostra emotività, e poi dovremmo dialogare maggiormente con i nostri figli, magari dando fiducia e coraggio, ed evitando di spronarli a inseguire modelli sociali, culturali ed estetici irreali, tutti fondati sull’apparenza, sull’ostentazione, sull’esibizionismo, sul potere. 

I nostri figli devono sapere che sono belli come sono, e che non hanno bisogno di stordirsi con gli psicofarmaci se hanno paura, se sono insicuri, se non hanno un amore, se non hanno i vestiti firmati e se non sanno ancora bene cosa ne sarà della loro vita. Dobbiamo abbracciarli di più, questi ragazzi, e dargli forza. Invece li lasciamo troppo spesso soli in questa giunga sociale e social dove ci si fa male senza un perché, solo perché qualcuno ha stabilito che i magri sono belli, i ricchi vincenti, i famosi migliori. Quindi non caviamocela accusandoli di cercare lo “sballo”, ma proviamo ad accoglierli sul serio. Perché gli adolescenti hanno un bisogno folle di avere punti di riferimento affidabili e rassicuranti, non di essere accusati di errori che sono anzitutto errori nostri, di noi adulti. 

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