Ci sono momenti, nella storia di un lettore di giornali che sta a cavallo di due mondi, in cui la cronaca per quanto tragica offre di queste possibilità. Di toccare con mano lo scarto che c’è tra la molteplicità degli accadimenti e la stereotipia della comunicazione politica. Qualunque cosa succeda e quale che sia il luogo del suo accadere, lo schema è sempre lo stesso. Ma se le cose stanno così, ed è evidente che stanno così, questo vuol dire solo che la risposta precede il fatto, esiste indipendentemente dal suo accadere, è già bella e confezionata e pronta all’uso alla prima occasione buona. Il linguaggio smette di essere uno strumento per penetrare conoscitivamente la realtà e diventa una forma di camuffamento.
La questione diventa rilevante perché di fronte ai due fatti di Napoli e Milano, di fronte alla loro occasionale concomitanza, diventa legittimo chiedersi se quello che sta succedendo nel nostro paese possa essere ricondotto alla categoria «ordine pubblico» e non sia invece l’affiorare di un fenomeno differente di natura politica e come tale più profondo.
Il ministro dell’ Interno dà l’idea di un uomo, come si dice, «sul pezzo». Nell’intervista al Mattino, ai napoletani dichiara: «Ho il quadro completo della situazione». All’allarme dei milanesi oppone «puntualizzazioni» suffragate dai dati. Ma dati di cosa?, questo è il punto. La risoluzione di un fenomeno sociale nella forma di una superficie di dati classificati se è funzionale al bisogno di accreditare un pieno controllo sulla realtà, lo è molto meno dal punto di vista della comprensione. Un conto infatti è stilare il rapporto delle attività di contrasto alla criminalità, scippi, rapine, furti, irruzioni nelle abitazioni, e così via. Un altro è essere messi di fronte ad episodi di violenza pubblica che per la loro natura eccedono il quadro della normalità sociale. Non c’è infatti società complessa che non conosca il fenomeno criminale, ma la violenza urbana in pieno giorno, in concomitanza di riti che sono fatti apposta per dare ad una comunità la percezione dello svolgimento routinario della sua esistenza quotidiana costringono la politica a fare i conti con una questione fondamentale qual è l’esercizio efficace del monopolio della violenza. Lo Stato si afferma disarmando le fazioni, riportando cioè la violenza dei gruppi particolari dentro limiti che non ne compromettono l’esercizio della sovranità. Il luogo principale della sua manifestazione sono strade e piazze. Ed è lì che storicamente ha difeso l’ordine politico contro i suoi nemici.
Abbiamo imparato a considerare il Sud un’eccezione, ma che ne è di un Paese in cui a Milano, in una città che si vuole moderna, ben collocata in uno degli snodi della nuova economia globale, si rischia di restare sotto il fuoco di un gruppo armato che irrompe sulla scena dell’ora di punta? Si resta sempre sul terreno della gestione dell’ordine pubblico o si entra in una dimensione di natura diversa?
La concomitanza degli accadimenti di Napoli e di Milano mette il ministro Salvini dinanzi ad un problema che non può pensare di affrontare contando poliziotti e carabinieri. Si tratta di una sfida all’ordine politico della società e come tale mette direttamente in gioco il problema della legittimazione dello Stato. Riguarda la sua autorità oltre che la sua forza. Su questo aspetto è raro ascoltare dichiarazioni da parte del ministro dell’ Interno. Nella sua semplicità ha ragione il bambino che, al presidente Mattarella in visita a Napoli, ha detto che spera di camminare per strade dove non si spari. La questione, infatti, sta tutta qui.