Quell’ansia etilica dei miei studenti tra noia e voglia di essere grandi

di Davide Morganti
Mercoledì 15 Gennaio 2020, 00:00 - Ultimo agg. 07:32
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Arrivano notizie dalla gioventù e non sempre sono buone notizie, forse perché a sedici anni la vita è un esperimento da provare e allora lo si allunga spesso con i liquori; capita a molti insegnanti di ritrovarsi alunni a terra, sbronzi, con la faccia persa.

Lloret de Mar, primavera 2017. I ragazzi sono in pista a ballare, io me ne sto da parte seduto come un cappotto stanco, all’improvviso, presi dall’agitazione, degli alunni mi chiedono di uscire, c’è Paolo (nome di fantasia) che sta male. Usciamo in fretta, un capannello di gente è piegato su Paolo steso sul marciapiede mentre viene tenuto per la testa: è pallido, delira, lo sguardo strabico, si teme il coma etilico, bisogna prendere una decisione. Nessun ospedale, proviamo a fare da soli. Gli alunni più robusti lo sollevano, Paolo ondeggia, borbotta chissà cosa, cominciamo a farlo camminare nelle strade tristi di Lloret de Mar, dopo poco ha bisogno di urinare, pochi passi ancora poi vomita. Di nascosto, poche ore prima, essendo maggiorenne, era uscito dall’albergo dove alloggiavamo e aveva bevuto quasi venti cicchetti.

«Prof, ormai non si beve solo il sabato sera ma alle feste, ai compleanni», dice una mia alunna. Perché bevete tanto? «Lo si fa per appariscenza, magari per farsi ricordare, lo scopo sarebbe quello di bere tanto e di rimanere lucidi in teoria per esibirsi ma poi va a finire delle volte male», afferma uno dei miei alunni.

La classe parla, si agita, le parole escono copiose. «Siamo insicuri, abbiamo bisogno di certezze». Raccontano episodi, in genere ci si lascia andare più alle feste private che nelle discoteche, si sentono meno vulnerabili forse. Viene fuori, tra le altre, la teoria che bere sia meno pericoloso che fumare una canna e poi una bottiglia di birra o di vodka la compri in un qualunque negozio, senza pericolo di essere arrestato. «Le ragazze perdono il controllo, sono loro che ti vengono addosso, è una roba allucinante, bere è decisivo per farci subito sesso».

Se si potessero raccogliere le frasi dei giovani, ne verrebbe fuori una Spoon River alcolica, incosciente, infantile; nelle parole c’è una malinconica paura che spesso viene giudicata come colpa. Si beve tanto, oggi, tantissimo, si comincia anche a dodici anni, qualcuno lo trova divertente, altri ripetono più volta che è la noia. «La noia, prof, uno spesso si scoccia e allora beve, così almeno fai qualcosa». Bisognerebbe tenere dei corsi a scuola sulla noia, su quanto sia fondamentale, permetterle di entrare nelle nostre vite, non scacciarla come fosse una malattia mortale; educare alla noia, forse servirebbe a rendere certi vuoti come turbolenze e non uragani. «La noia è il desiderio della felicità, lasciato, per cosí dir, puro. Questo desiderio è passione. Quindi l’animo del vivente non può mai veramente essere senza passione. Questa passione, quando ella si trova sola, quando altra attualmente non occupa l’animo, è quello che noi chiamiamo noia, scrive Leopardi nello Zibaldone.

Una delle alunne aggiunge che spesso le ragazze fanno finta di ubriacarsi, «così dopo hanno la scusa che non erano coscienti» quando fanno sesso e non si sentono giudicate. Ubriacarsi per non capire niente, questa frase è un mantra, c’è una soddisfazione ridanciana quando la sostengono come avessero commesso chissà che cosa grandiosa. «Anche per sentirsi indipendenti», afferma un’altra alunna. Spesso ci si sente inutili quando provi a dire dei pericoli dell’alcool e di come un adolescente non abbia enzimi che lo elaborino, si ha la spaventosa sensazione che non serva parlare perché tanto non ti sentiranno mai, troppo presi come sono dalla loro ansia etilica di crescere in fretta; però, poi, succede che non si può tacere, non si riesce a tacere, non si deve.
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