Alessia nel carcere dei dissidenti: pesano i post sul regime iraniano

di Titti Marrone
Lunedì 3 Ottobre 2022, 23:45 - Ultimo agg. 4 Ottobre, 06:00
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Poteva farsi gli affari suoi Alessia Piperno, la ragazza arrestata per motivi ancora non chiari in Iran? Perché non se n’è stata tranquilla, in Italia, invece di andare nel Paese dove le piazze ribollono di donne in rivolta contro le imposizioni della Polizia Morale che ieri ha assaltato la Sharif University di Teheran? E perché il governo italiano e noi tutti dovremmo chiederne l’immediato rilascio ed il ritorno istantaneo a casa sua? 

Lo sappiamo benissimo, ci saranno alcuni che si faranno queste domande, arrivando a concludere che la trentenne romana se la sia andata a cercare. E qualcosa ci dice che le persone inclini a pensarla così tenderanno ad aumentare. Poi, certo, non si devono fare illazioni, anche perché non ci sono informazioni a sufficienza per spiegare ciò che di preciso è accaduto. Ma alcune relazioni tra i fatti si possono istituire, e alcune cose le sappiamo: per esempio, che Alessia è una blogger di viaggio, che ha molti follower, che aveva scritto alcuni post a favore della lotta delle donne iraniane. Sappiamo che è cresciuta tra i libri, visto che i genitori hanno una libreria a Roma. Sappiamo che il governo iraniano, non esattamente amico dei libri, ha fatto sapere di aver arrestato, nei giorni scorsi, “nove persone provenienti da Paesi europei” con l’accusa di essere istigatori della rivolta in corso. Rivolta che sta coinvolgendo molte più donne del 2019 e si sta allargando a macchia d’olio, ed è entrata nelle università, dove ieri è entrata pure la polizia chiamata a vigilare sulle virtù e la morale. Violentemente, picchiando e arrestando gli studenti, sparando su una ragazza che stava filmando alcuni agenti intenti a prendere a calci il suo fidanzato, e chissà su quanti altri. L’abbiamo visto in un video postato sui social in virtù di quella libertà consentita dal fenomeno chiamato citizen journalism, che può trasformare in un produttore di notizie chiunque sia in grado di fare e postare un video, spezzando le maglie della censura. E non per niente il regime iraniano annovera proprio la rete tra i suoi principali nemici. 

Un’altra cosa che sappiamo è ciò che pensa l’ayatollah Khamenei, quello che ha definito l’uccisione di Masha Amini “un triste incidente che ci ha lasciato il cuore spezzato”, ma non ha fornito spiegazioni sulle 133 persone ammazzate dall’inizio della rivolta secondo la denuncia di Iran Human Rights. L’ha detto ieri: per lui le rivolte altro non sono che “un complotto straniero per destabilizzare l’Iran”. E le proteste “non sono normali ma innaturali”. 

Normale, invece, in un Paese in cui l’obbligo del velo è un pilastro del potere ed è legittimo imporre la fustigazione a quelle che lo violano, è provocare un “triste incidente” a una ragazza che come Masha osa lasciarne fuoriuscire qualche ciocca.

O anche a chi, come Nadis Hajafi, partecipa a una manifestazione facendosi riprendere in un video a capo scoperto, annodandosi la coda di cavallo bionda in un gesto spavaldo. Pagato con la vita. 

Ora tutto questo ci irrompe in casa e ci viene avvicinato dalle denunce in diretta operate sui social da persone che rischiano molto per documentare. Sono blogger come Alessia, o studenti, o semplici utenti della rete. Sanno che quelle immagini raccontano una realtà importante da svelare perché riguarda tutti, anche noi nati e cresciuti a chilometri di distanza. Capiscono, come si immagina abbia fatto Alessia, che i diritti democratici sono materia fragilissima, esposta a essere calpestata o cancellata, come avvenne in Iran dopo l’instaurazione del regime degli ayatollah che nel 1979 cancellò brutalmente un processo di modernizzazione visto come satanica occidentalizzazione e cedimento ai nemici della Sharia, la suprema regola religiosa. 

Ci vuole poco perché ci si trovi a svegliarsi in quell’incubo. Per le donne iraniane oggi è come se la storia fantastica inventata nel 1985 dalla grande scrittrice americana Margaret Atwood nei due romanzi del ciclo Il racconto dell’Ancella si stesse avvicinando minacciosamente. È la distopia su un “mondo nuovo” chiamato Gilead, racconta di un futuro in cui uragani, siccità, devastazioni da guerre nucleari hanno fatto precipitare i tassi di natalità e una teocrazia rigidamente gerarchica impiantatasi nel Nordest degli Usa ha trasformato le poche donne fertili in Ancelle, schiave destinate a essere ingravidate da Comandanti con mogli sterili. Il giorno in cui tutto comincia è quello in cui di colpo le donne vengono private dei posti di lavoro e dell’uso delle carte di credito, le ragazze e le bambine devono smettere di andare a scuola e tutte le femmine sono imprigionate in uno stadio, divise tra fertili e sterili e sottomesse agli uomini. Le Ancelle segregate nelle case indossano penitenziali mantelle rosse e cuffie che coprono i loro volti, escono in coppia solo per fare la spesa sotto il controllo degli Angeli, soldati armati, passando sotto un muro dove vengono esposti i corpi di uomini e donne che trasgrediscono. E le pattuglie chiamate a mantenere l’ordine portano quello stesso nome: Polizia Morale. 

Può sembrare un’esagerazione accostare quella storia al nostro presente, e nel 1985 apparve come fantascienza pura, ma a volte la letteratura sa vedere più lontano di quanto si pensi. Intanto serve vigilare, raccontare ciò che accade, capire che le rivolte in corso in Iran sono combattute anche per le nostre libertà, più che mai da non dare per scontate.

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