Altro che storia
è solo orrore

di Francesco Durante
Giovedì 22 Marzo 2018, 22:56
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Eccoli, i “fasti del quarantennale”, per usare le sciagurate e ahimè indelebili parole di Barbara Balzerani. Fasti davvero miserabili, in verità: nient’altro che un’offesa all’intelligenza recata attraverso un’offesa alla memoria. E i problemi stanno tutti qua, nella mancanza di una manutenzione della memoria, ovvero nella maniera strabica che sempre più si afferma di frugare a casaccio nella sempre più confusa memoria collettiva di questo Paese.
Io, comunque, il 16 marzo 1978 c’ero. Facevo già il giornalista. Non a Roma, anzi: in provincia. Ma da quel mio osservatorio privilegiato – privilegiato proprio perché lontano le mille miglia dai palazzi della Capitale, e dunque capace di farmi percepire gli umori profondi della gente comune, di quelli che la mattina si alzavano e andavano al lavoro mentre la radio sgranava il rosario delle vittime quotidiane degli anni di piombo – posso garantire che la strage consumata dalle brigate rosse in via Fani produsse soltanto orrore e, in modo assolutamente spontaneo, un senso generale d’indignazione. 
Le persone si radunarono quella sera stessa sulla piazza principale della mia piccola città, e altrettanto fecero nelle piazze principali di cento e mille piccole e grandi città di tutta Italia. C’erano i democristiani e c’erano i comunisti, c’era tutto il Paese, quello vero, che si stringeva intorno ai caduti per gridare il suo “no”, il suo rifiuto di quei metodi, di quella violenza selvaggia, di quel nichilismo autodistruttivo. Stiamo parlando di un’Italia molto diversa da quella di oggi, insieme più domestica e ingenua, e più seria e misurata. Moro era quello delle «convergenze parallele», Alighiero Noschese ne faceva l’imitazione in tv e in tanti fra noi speravano di non morire democristiani. Non c’erano i social, non c’erano i tweet; la politica era noiosa, e noiosissime le dichiarazioni dei politici. Ma almeno non era spettacolo. E intanto il Paese era cresciuto e andava avanti, i giovani – la mia generazione – avevano una prospettiva e l’Italia consolidava il suo posto nel mondo.
I miei amici ed io avevamo vent’anni o giù di lì. Eravamo freschissimi di università, se non addirittura di liceo. Da circa un decennio avevamo fatto pratica pressoché quotidiana di una cosa che era stata chiamata «strategia della tensione» e che era sfociata, per l’appunto, nei cosiddetti anni di piombo. Non so più quante centinaia di persone sono morte ammazzate in quella sciagurata stagione. Tra i giovani c’era sconcerto e disorientamento. Non pochi erano quelli che all’inizio avevano detto «Né con lo stato, né con le bierre» (o coi Nar e le altre organizzazioni di estrema destra). Cazzate generazionali, più che altro. Ma io non permetterò a nessuno di gettare fango sulla mia, sulla nostra giovinezza, sul momento magico di un’intera vita. So che la mattina in cui fummo svegliati dalla notizia di via Fani tutti i dubbi vennero spazzati via, tutte le divisioni vennero meno, sostituite dalla necessità urgente di affermare che c’era un Paese intero che non ne poteva più di tutta quell’orribile follia omicida.
Può essere, anzi sicuramente è, che una men che esigua minoranza continuasse, nell’ombra, a coltivare i suoi miti di morte. Squadristi di varia denominazione: sedicenti fascisti come quelli che un mese fa hanno istoriato di svastiche la stele di via Fani, sedicenti comunisti combattenti come quelli che oggi, su quegli stessi marmi, hanno tracciato con la vernice rossa la scritta Br. Gli uni e gli altri, analfabeti della democrazia e dell’intelligenza: gente che probabilmente non saprebbe nemmeno collocare il sequestro Moro in una precisa dimensione cronologica.
Non dobbiamo avere paura di questi imbecilli. Per sconfiggerli bastano le telecamere e il pronto intervento di chi in quattro e quattr’otto deve cancellare i segni del loro passaggio. Dobbiamo invece avere paura del modo in cui la memoria impallidisce, e dobbiamo fare tutto il possibile per scongiurarlo. Questo è l’unico impegno serio che il Paese può assumersi. E deve farlo senza infingimenti, senza astuzie tattiche, senza sfumature di parte. Oggi, evocando una condizione che in realtà non si verifica mai, si usa dire «senza se e senza ma». Quarant’anni fa l’Italia che scese nelle piazze fu invece capace di dare un senso operante e concreto a quei due «senza».
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