I tre scalini dell'odio ​contro gli ebrei

di Titti Marrone
Giovedì 2 Novembre 2023, 00:00 - Ultimo agg. 06:32
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«Se quattro pietre d’inciampo sono state insozzate a Roma, se ci sono svastiche e stelle di David disegnate a Parigi sui muri delle case e di negozi ebraici, se in Daghestan è partita la caccia ai sionisti, se dall’Italia all’America in migliaia sfilano gridando che la Palestina deve liberarsi definitivamente gettandoli a mare, non è per razzismo. È per colpa loro. Degli ebrei». In quanti la pensano così? In quanti pensano senza dirlo che, se gli ebrei sono perseguitati da secoli, qualcosa devono pur avere fatto? O anche, quanti sono quelli che oggi, dopo l’offensiva israeliana contro Gaza, prendono coraggio, vengono allo scoperto e proclamano apertamente pensieri di odio antiebraico segretamente alimentati da sempre, a volte sotto lo scudo di orientamenti apparentemente democratici? Meglio non azzardare calcoli, ma il timore che quei sentimenti si stiano allargando a macchia d’olio purtroppo non è infondato. 

È un pericolo mortale, un contagio che può avvelenare il mondo e non è nemmeno qualcosa di nuovo. Per dire, nel luglio 1946, cioè a guerra finita e a nazismo sconfitto, nella città di Kielce, Polonia sudorientale, un brutale pogrom fu scatenato dagli abitanti contro gli ebrei del posto. Uno dei tantissimi, non si contano nella storia dell’ebraismo. Furono tutti massacrati. Un uomo che si doveva considerare di chiesa cioè di pace, il vescovo Czeslaw Kaczmarek, disse che la colpa del pogrom era «degli ebrei che collaboravano con il regime comunista». E aggiunse: «Agire sotto l’effetto di un’emozione diminuisce sempre la colpa».

Proprio allo stesso modo, oggi molti sostengono che non sia l’antisemitismo a suggerire l’offesa alle pietre di ottone incise nel selciato davanti alle abitazioni di persone deportate nel lager in quanto ebrei e non più tornate. Molti pensano, come il vescovo di Kielce nel 1946, che sia un atto giustificato: la reazione-alla-reazione violentissima decisa nella Striscia di Gaza da Netanyahu dopo il pogrom del 7 ottobre che in un sol colpo ha prodotto 1400 morti tra bambini, anziani, giovani uomini e donne. Provocando così 7000 vittime palestinesi. Così di reazione in reazione la catena dell’odio si amplifica, moltiplica a dismisura le sue maglie. E ci stringe in un recinto in cui non c’è più posto per la pietà. Resta solo, in quel recinto, una rigida spaccatura fra due schieramenti.

Quello di chi confonde la politica bellicista e colonialista di un governo di estrema destra con l’identità dell’intero popolo ebraico, in Israele o disperso nella diaspora. E dalla parte opposta, la squadra di chi identifica i palestinesi, tutti, con i terroristi di Hamas. La comunicazione stessa sulla guerra, tranne qualche eccezione, sta dando un pessimo esempio di sé, alimentando proprio le pulsioni dell’una o dell’altra squadra, giocando sporco con l’uso contrapposto delle immagini di corpi straziati, della contabilità delle vittime, delle testimonianze sull’orrore del 7 ottobre e su quello prodotto dai bombardamenti nella Striscia di Gaza. Tutte cose che tolgono il fiato e allontanano la possibilità della pace o anche solo di una tregua. 

Avanzano così, e si rafforzano, gli opposti pregiudizi. Negli anni Sessanta fu Gordon Willard Allport a elaborare una “scala del pregiudizio”, definito come l’ostilità nutrita verso qualcuno appartenente a un determinato gruppo, semplicemente perché appartiene a “quel” gruppo. La sua scala comprendeva tre gradini: il più basso annoverava il rifiuto verbale; il secondo la discriminazione che include la segregazione; il terzo l’aggressione fisica, che può condurre allo sterminio. E in Germania, prima dello scatenarsi del razzismo antiebraico in tutta la sua virulenza, c’erano stati decenni di proclami e manifestazioni di antisemitismo verbale. A quelli fece seguito l’iniziativa di Hitler di organizzare l’odio antiebraico in un corpus giuridico con le leggi di Norimberga, che discriminavano gli ebrei privandoli dello statuto di cittadini. La terza tappa, o il terzo scalino, fu lo sterminio. Quel terzo scalino non sarebbe stato possibile senza i primi due. 

Ecco perché atti come l’imbrattare le pietre d’inciampo possono aprire la porta a una progressione senza fine dell’odio, ecco perché sono gravissimi e preoccupanti. Quelle pietre, le Stolpersteine ideate dall’artista tedesco Gunther Demnig e installate in varie città d’Europa a disegnare una specie di ideale parco diffuso della memoria, hanno lo scopo di far inciampare in senso figurato i pensieri dei passanti, spingendoli a ricordare il motivo per il quale i sampietrini si trovano in quel preciso luogo che, in un tempo non troppo remoto, fu teatro di stravolgimento della vita di milioni di persone.
 

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