Autonomia, quanti danni:
ora basta localismi

di ​Mauro Calise
Lunedì 6 Aprile 2020, 00:00 - Ultimo agg. 07:00
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Sta cominciando a cambiare la scena, il frame mediatico. Il focus dell’opinione pubblica si sta spostando dal bollettino di morti e contagiati a quello dei disoccupati. E del costo economico epocale che questa pandemia sta provocando. L’avvisaglia l’ha suonata l’Economist, il portavoce più autorevole dell’establishment mondiale, scrivendo che è tempo che i governanti si assumano la responsabilità di fare le scelte più difficili. 

Le stesse che si fanno in guerra, quando si decide di sacrificare un fronte per non capitolare su un altro, considerato più importante per la vittoria finale. 
Fino ad oggi, ha tenuto banco il grido del Governatore di New York: «non faremo una stima in dollari del valore di una vita da salvare». Ma in realtà, ci ricorda l’Economist, questo calcolo è presto fatto. Per ogni famiglia americana, gli sforzi per mitigare l’epidemia già rappresentano un conto di 60mila dollari. Può darsi che gli Stati Uniti siano disposti a pagarlo. Sono ricchi, potrebbero permetterselo. Ma che cosa farà l’India, che è alle prese con aree di povertà incontrollabili? E il brusco cambio di passo della Russia, come si spiega, quanto durerà? Da sempre l’esigenza di serrare i propri confini ha portato ad alimentare l’aggressività verso quelli altrui. Siamo alla vigilia di un ritorno globale di sovranismo?

Per non parlare di scelte dolorose sul fronte stesso dell’offensiva medica. Quando avremo finalmente il vaccino, a chi – e a che prezzo – lo distribuiremo? Come ci comporteremo in quei paesi dove già oggi milioni di bambini muoiono semplicemente di fame? E cosa accadrà ai nostri bimbi, quelli dell’Occidente opulento, che soffrono di malnutrizione e, con la chiusura delle scuole, non hanno neanche i pasti della mensa? La lista di queste impietose analisi costi-benefici si sta allungando e diventando più intricata con il passare dei giorni. E il timore che si sta impadronendo di chi è nelle cabine di regia è che, se restiamo fermi ancora a lungo, quando proveremo a ripartire potrebbe essere troppo tardi. Il risultato è che – dietro le quinte, e a bassa voce – si stanno moltiplicando le spinte per aggiornare le priorità. Non più solo emergenza sanitaria, ma sempre più emergenza economica. 

In questo cambiamento di rotta – forse, inevitabile e improcrastinabile – c’è, però, un handicap che rischia di farci precipitare nel baratro. Ogni paese si sta muovendo in proprio, sulla base delle pressioni interne. Con le nazioni più forti animate dall’antica illusione di potere trarre vantaggio dalle debolezze altrui. Se questa è una guerra, alla fine, conta chi detta le condizioni della pace. Purtroppo, è un film che abbiamo già visto. Soprattutto noi europei, in prima fila nelle ultime guerre mondiali. E artefici del clamoroso fallimento delle due conferenze che dovevano gettare le basi della pace. E, invece, ci hanno regalato un mondo molto peggiore. 

Sono questi – Yalta e Versailles – i due fantasmi, i convitati di pietra al vertice martedì dell’Eurogruppo. Se l’asse filotedesco continuerà a pensare di dettare condizioni unilaterali e spartirsi le sfere di influenza, mettendo i Paesi mediterranei in ginocchio, l’esito sarà di innescare una guerra fredda finanziaria. Con l’implosione dell’unità europea e, a stretto giro, dell’euro. E se non bastasse il ricordo di quanto risultarono miopi gli accordi presi in Crimea, è augurabile che qualcuno degli sherpa in teleconferenza – i governanti, si sa, leggono poco – si ripassasse il vaticinio di John Maynard Keynes. Nelle «Conseguenze economiche della pace» - il libro scritto nel 1919, dopo aver partecipato al fianco di Lloyd George alla conferenza di Versailles - furono lucidamente anticipati il tracollo dell’economia tedesca e gli anni di sofferenze inaudite da cui nacque il nazismo. E la seconda guerra mondiale, coi suoi sessanta milioni di morti. La storia, si sa, a volte si ripete come farsa. Altre volte, come tragedia. 
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