Se l'Italia viene divisa
senza discutere

di Massimo Adinolfi
Giovedì 14 Febbraio 2019, 00:00
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L’argomento è: l’autonomia rafforzata richiesta da Veneto e Lombardia (a cui si è aggiunta l’Emilia Romagna) premia le amministrazioni più efficienti, nell’interesse dei cittadini. Le risorse vanno a chi le spende meglio: c’è principio più sacrosanto di questo? Forse sì, se uno crede che l’efficientamento non possa comunque andare a scapito dell’uguaglianza da assicurare a tutto il territorio italiano per determinati livelli di prestazioni reputate essenziali. 

E comunque è da discutere se in gioco sia questo, e soltanto questo, nel passo che il governo compie oggi - dando il via libera all’intesa raggiunta tra la regione Veneto e il ministero dell’Economia - e non piuttosto il senso stesso di una comunità nazionale. 
Decentramento e differenziazione su base regionale: si tratta di confrontarsi sulle economie che producono, sui vantaggi che ne vengono alle popolazioni coinvolte, ma anche su come cambia la faccia stessa del Paese. Da parte degli amministratori meridionali c’è ovviamente il timore che il significato brutale di tutta questa vicenda sia semplicemente: più risorse alle regioni del Nord, meno al Sud. Ma anche se così non fosse (e in verità qualche ragione di temerlo c’è), vi è davvero consapevolezza, nell’opinione pubblica e nel Paese, di quel che sta accadendo? Siamo a un passo dall’attuazione di una riforma costituzionale che, realizzata in profondità, può significare sistemi sanitari e sistemi scolastici diversi a seconda se si viva a Venezia o a Napoli, a Bologna o a Bari: l’Italia non sarebbe più la stessa. 

Ora, è mai possibile che ad una decisione di così ampia portata si arrivi attraverso il lavoro svolto dietro le quinte da tecnici ministeriali e funzionari regionali, senza che tutta la materia, così dirompente, sia portata al centro di un grande dibattito generale, e resa visibile e pubblica nel luogo più alto di una democrazia, che è il Parlamento? Invece va così, che il governo scopre improvvisamente di aver fretta di chiudere la partita. Questione di settimane? Di giorni? No, di ore. Si chiude oggi, possibilmente prima di cena. Perché i Cinque Stelle sono sotto scopa. Perché non si sa quel che potrà accadere dopo il voto alle Europee. Perché l’opposizione è afona o balbettante. E perché diciamola chiara: quando sei martello batti. E la Lega, già prima ma ancor di più adesso, dopo il voto abruzzese, la Lega non smette di martellare.
Ci sarebbe un ministro del Sud, in realtà. Ma chi conosce la sua opinione, in merito? E il titolare della Sanità: cosa ne pensa? E il ministro dell’Istruzione? Sembra che un provvedimento del genere, che può cambiare drasticamente l’assetto materiale del Paese, che sposta ingenti risorse finanziarie, che ridefinisce competenze e responsabilità, possa passare in un Consiglio dei ministri semplicemente a ratifica. E che anche al Parlamento si voglia richiedere poco più di una presa d’atto. È mai possibile una cosa del genere?

Il governo giallo-verde è nato sulla base di un contratto, reso necessario dal fatto che le due forze contraenti si erano presentate alle elezioni in un quadro di alleanze diverse, e su posizioni programmatiche distanti. In quel contratto si legge effettivamente che vanno portate «a rapida conclusione le trattative tra Governo e Regioni attualmente aperte». E si dice pure che «il riconoscimento delle ulteriori competenze dovrà essere accompagnato dal trasferimento delle risorse necessarie per un autonomo esercizio delle stesse». Quel che non si legge è che tutto questo debba avvenire quasi senza preavviso e comunque senza tante chiacchiere. Cioè, per dirla con un po’ più di considerazione per una materia tanto fondamentale: senza farne oggetto vero di un autentico dibattito pubblico (mentre altri temi – vedi alla voce Tav – vengono ridiscussi fino alla nausea, qualunque cosa sia scritta nel contratto). 

È evidente che per la Lega ne va del rapporto con la sua base storica, che non avrebbe voluto il reddito di cittadinanza e che soprattutto non avrà la grande promessa rivolta ai ceti produttivi: la flat tax. Ma è evidente pure che è la congiuntura politica a suggerire l’accelerazione, è la debolezza di Di Maio, in un angolo dopo il voto e senza una prospettiva diversa da quella di rimanere al governo, a suggerire a Salvini di passare senz’altro all’incasso.

I Cinque Stelle, d’altra parte, sono di gran lunga il primo partito del Mezzogiorno, dove è forte l’ostilità nei confronti della «secessione dei ricchi», eppure, nel grande bisogno di novità che li ha portati al clamoroso risultato elettorale del 4 marzo scorso, non sono riusciti a riversare le ragioni di un nuovo meridionalismo. Così non sono riusciti a star dentro un processo, che ora rischia di arrivare ad una conclusione senza che se ne siano comprese, affrontate e discusse le conseguenze. 
Il fatto è che non si tratta di conseguenze di poco momento, ma di un riassetto complessivo dei poteri reali e degli equilibri fra le aree del Paese. Ed è davvero un triste giorno quello in cui un Paese dovesse cambiare fisionomia, e vedere incrinata l’unità nazionale così: quasi senza accorgersene. Mentre uno commenta il Festival di Sanremo, l’altro si preoccupa di sette sataniche e diete vegane, e il terzo commette qualche simpatica gaffe.
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