L'autonomia e il rischio corruzione

di Raffaele Cantone
Giovedì 21 Febbraio 2019, 00:00
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A poco meno di vent’anni dall’entrata in vigore, una delle riforme più discusse della storia repubblicana (quella del titolo V della Costituzione, che nel 2001 attribuì alle Regioni significativi poteri in numerosi ambiti) rischia di produrre uno dei suoi effetti più deleteri. 

Sfruttando la previsione contenuta nel comma 3 dell’art. 116, introdotto proprio da quella legge e fino ad oggi rimasto inutilizzato, si intende infatti dare vita alla cosiddetta autonomia differenziata, ovvero la possibilità di concedere “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”.
Il decentramento del 2001 ha trasformato le Regioni in piccoli Stati e accanto ad effetti positivi (come l’avvicinamento dei servizi ai cittadini) ne ha anche prodotti alcuni molto negativi. In primo luogo, ha fatto aumentare vertiginosamente le spese “locali” senza ridurre quelle nazionali, dando vita a sprechi sotto gli occhi di tutti. Basta ricordare due casi emblematici: l’impennata del disavanzo sanitario, con acquisti spesso fuori da ogni logica di mercato (come registrato di recente anche da un’apposita indagine dell’Anac), che ha imposto durissimi piani di rientro e l’apertura di sedi di rappresentanza sia Roma che all’estero (nel 2012 un’inchiesta giornalistica ne censì 176), motivata dal fatto che fra i poteri devoluti vi erano i rapporti internazionali e con l’Ue. 

Il tutto è avvenuto in un contesto in cui il debito pubblico è salito (certo non solo per colpa delle Regioni) dal 108% al 132% del Pil, ovvero da 1.620 a 2.316 miliardi, il 43% in più in termini assoluti.
Oltretutto la scarsa chiarezza nella divisione dei poteri ha amplificato a dismisura l’incertezza giuridica; i ricorsi alla Corte costituzionale dovuti a controversie tra Stato e Regioni si sono moltiplicati, al punto che a partire dal 2004, come ha documentato l’osservatorio Openpolis, si sono registrati oltre 100 casi l’anno e nel 2012 quasi metà dei pronunciamenti ha riguardato proprio tali conflitti di attribuzione!
Inoltre l’autonomia, che con l’attribuzione di nuove competenze ha comportato anche un aumento delle risorse, non ha solo generato da parte delle Regioni gestioni a dir poco “allegre” (si pensi ai contributi ai gruppi consiliari all’origine delle varie Rimborsopoli, arrivati solo nel Lazio ai tempi dello scandalo Fiorito all’astronomica cifra di 11 milioni l’anno) ma soprattutto ha fatto aumentare notevolmente la corruzione. Una recente ricerca della fondazione Res ha evidenziato come, specialmente dopo il 2001, la maggior parte dei casi si è “spostata” dal centro alla periferia. Sotto questo aspetto, certo non è una coincidenza se, solo negli ultimi mesi, a essere indagati con l’accusa di aver ricevuto tangenti sono stati in particolare amministratori locali. 

Con la riforma all’esame in questi giorni del Governo (e che secondo alcuni non dovrebbe nemmeno essere discussa dal Parlamento ma approvata “a scatola chiusa”), una serie di ulteriori materie diverranno competenza esclusiva di alcune regioni che ne hanno fatto richiesta: Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e pare anche la Campania. 
Al nuovo riparto di competenze dovrebbe aggiungersi anche il mantenimento in loco di gran parte (fino al 90%!) dei proventi della tassazione. 
Pur senza evocare il rischio, che pure c’è, secondo cui queste novità possano mettere a repentaglio l’unità nazionale e il principio di solidarietà sancito dalla Costituzione, appaiono indiscutibili alcune conseguenze. 
Devolvere differenti materie a seconda delle richieste delle Regioni rischia difatti di rendere ancora più caotico il sistema nel suo insieme e aumentare quell’incertezza normativa in cui notoriamente alligna il malaffare e che genera la corruzione (corruptissima re publica plurimae leges, diceva Tacito duemila anni fa!). Un vero ossimoro, se si pensa ai quotidiani annunci sulla necessità di semplificare, snellire e velocizzare le procedure! 

L’ altro piano è ancora più preoccupante e tocca direttamente la quotidianità di milioni di persone. Un recente studio dell’Osservatorio sulla salute dell’Università Cattolica di Roma, realizzato su dati Istat, ha dimostrato che, anche per effetto delle migliori condizioni socio-economiche, il crescente divario fra Nord e Sud si riflette anche sulla speranza di vita. Dal 2005 l’aspettativa di un residente in Trentino è aumentata di 18 mesi rispetto a quella di un calabrese, mentre la Campania fa già adesso registrare la più bassa aspettativa di tutto il Paese (81 anni contro 82,7 della media nazionale, col record negativo di 80,6 a Caserta). 
Nelle regioni ricche, insomma, non solo si vive meglio, ma pure più a lungo. Siamo davvero sicuri che, ampliando le differenze economiche, tutta l’Italia nel suo complesso avrà da guadagnarci e che i cittadini del Sud non abbiano proprio nulla da rimetterci?
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