Autonomia, se il divario tra Nord e Sud diventa legge

di Isaia Sales
Mercoledì 6 Febbraio 2019, 00:04
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Parafrasando un celebre libro di Gian Enrico Rusconi, «Se cessiamo di essere una nazione», scritto quando la Lega di Bossi brandiva la spada della secessione del Nord dall’Italia e il professor Miglio proponeva la creazione di tre macroregioni per separare il settentrione produttivo dalla «Roma ladrona» e dal «Sud parassita», è più che giusto chiedersi se potremo ancora considerarci un’unica nazione di qui a qualche settimana: sarà il momento in cui il governo Salvini-Di Maio-Conte approverà l’autonomia legislativa e fiscale della Lombardia, del Veneto, dell’Emilia Romagna ed eventualmente delle altre regioni che la richiederanno.

Perché una nazione può anche «cessare di esserlo». Essa, infatti, non è «una struttura statuale fissa e indistruttibile». Una nazione democratica, in particolare, è «una costruzione sociale delicata e complicata, fatta di culture e storie condivise, basato sulla reciprocità dei cittadini. È un vincolo di cittadinanza, motivato da lealtà e da memorie comuni».

È del tutto evidente che questa particolare autonomia regionale, se verrà concessa, rompe nei fatti il patto di cittadinanza tra gli italiani (cioè, gli stessi diritti per abitanti di territori con storie diverse) e spezza il patto di lealtà a base del nostro essere membri della stessa nazione (cioè, sentirsi uguali pur vivendo in zone diversamente sviluppate). Una nazione democratica, scrive ancora Rusconi, è fatta ad un tempo di radici comuni e di buone ragioni di convivenza. Ma le radici si possono strappare e le ragioni di convivenza si possono smarrire o falsificare. Siamo di fronte, con l’autonomia differenziata sostenuta dalla rivendicazione di un uso delle tasse laddove vengono pagate, a uno strappo radicale dello stare insieme di cittadini «diversamente italiani» e all’esaurirsi delle buone e reciproche ragioni di convenienza tra aree diverse che hanno condiviso per tanti anni una comunanza di fini, anche con condizioni di partenza ineguali.

L’autonomia differenziata (per come è stata immaginata) non si ispira al principio che alcuni territori gestiscano delle competenze in anticipo su altri, funzioni che poi anche chi oggi non può potrà esercitare domani. No. Niente affatto. L’autonomia differenziata è una sanzione delle differenze, sancisce semplicemente gli squilibri che già esistono e li rende definitivi e insuperabili. Il gap di servizi, nella scuola, nella sanità, negli asili, nella dotazione di verde, di parchi, di attrezzature sportive, di risorse di sostegno all’apparato produttivo, etc., diventerà «legittimo», non una cosa da superare nel tempo ma un dato codificato per sempre, non un esito imprevisto e involontario di una particolare storia nazionale (e, dunque, a maggior ragione da superare), ma un privilegio etnico-territoriale immodificabile. Insomma chi, all’interno della stessa nazione, abita in territori particolari e benestanti ha più diritti di chi invece ha avuto la ventura di abitare in territori disgraziati. La nazione diventa così matrigna per alcuni cittadini e per alcune aree che hanno la colpa di essere cresciute meno di altre. Si punisce il luogo in cui si è nati in quanto non in grado di garantire le risorse necessarie per beneficiare di uno standard medio di servizi civili. 
Ma una nazione è tale se non applica il privilegio di nascita e di territorio nella definizione dei diritti di cittadinanza. Una nazione è tale se permette a tutti i suoi cittadini di cambiare le condizioni sfavorevoli in cui sono nati e vissuti. Non è più una nazione democratica quella che rende immodificabili tali condizioni di partenza.

Per questi motivi l’autonomia differenziata si qualifica come un razzismo territoriale nell’accesso a servizi di cui tutti allo stesso modo, nel tempo, debbono godere. Questo particolare regionalismo secessionista di ispirazione leghista, ma copiato senza battere ciglio anche dalla «progressista» Emilia-Romagna, è nato sulla base di un antimeridionalismo di fondo, si è alimentato di esso nel corso del tempo e permane coerente a quell’inizio. E si realizza mentre gli ispiratori di un tempo, quelli che volevano separarsi dalla nazione Italia e non si riconoscevano nella sua bandiera, nella sua capitale e perfino nel suo inno, sono diventati oggi i più accesi nazionalisti, anzi sovranisti (il nuovo termine in cui si definiscono gli odierni «malati di nazione»). Misteri d’Italia: chi disprezzava il nome di italiani, oggi si identifica nello slogan «prima gli italiani», che poi in ogni territorio da essi controllato e governato diventa «prima i veneti», «prima i lombardi» e così via. Come si concilia «prima gli italiani» con «prima i veneti e i lombardi»? Non si concilia. A meno che i veneti e i lombardi siano da considerarsi più italiani degli altri, o che i non veneti e i non lombardi siano meno italiani. E per i meridionali? Né primi né tantomeno uguali. I meridionali sono quelli che vengono dopo. In questo modo l’Italia cessa di essere una nazione disegnata anche per chi abita al Sud. A ben pensarci, mai contraddizione è stata così stridente nella cultura istituzionale di un Paese: siamo di fronte a dei nazionalisti territorialisti. Certo, ci sono nazionalisti che difendono l’integrità di una nazione lottando contro quelli che se ne vogliono separare per formare una nuova nazione. E ci sono nazionalisti che vogliono separarsi dalla nazione di cui hanno fatto parte fino a quel momento non riconoscendosi in essa. Non è mai capitato che si possa essere nazionalisti (a difesa cioè dell’intera nazione Italia) e al tempo stesso territorialisti. Non si possono giocare due ruoli in commedia. E ai leghisti ciò viene concesso. E viene concesso sia dai loro attuali alleati che dovrebbero rappresentare quel Sud (che ha dato loro il massimo dei voti) che sarà la principale vittima di questo originale nazionalismo territorialista, sia dai loro oppositori del Pd, che non hanno contrastato adeguatamente (per la verità non tutti e non sempre) questo disegno e in alcune regioni da loro guidate lo hanno addirittura assecondato.

Ma, ricordiamolo per chi lo avesse dimenticato, il Sud d’Italia non è altro che una variabile territoriale del tema delle diseguaglianze economiche e sociali della nostra nazione. E quando le forze progressiste abbandono il presidio della lotta alla diseguaglianze, anche il Sud scompare dal loro orizzonte. Con tutte le conseguenze che ne derivano. Compresa quella di dichiararsi nazionalisti e badare di più ad alcuni specifici territori che ad altri, e quella di essere italiani ma trattati come semistranieri in patria. 
Spero che anche di queste preoccupazioni si faccia carico oggi il convegno che Confindustria campana ha indetto sull’argomento, con apprezzabile sensibilità e tempismo.
 
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