Non è questione di aprire alla pratica forcaiola delle liste di proscrizione. E nemmeno di buttarsi nell’abusata retorica anti-casta peraltro responsabile dell’ingresso in politica di non pochi incompetenti totali. Ma di fronte ai cinque deputati e agli altri pubblici amministratori fruitori del bonus Covid, l’indignazione collettiva non è solo naturale: va anche praticata razionalmente.
Come esercizio civile di una comunità consapevole che esige un elementare obbligo costituzionale per i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche: “hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”. Lo richiede l’articolo 54.
Ma la vergognosa vicenda che ha visto quei signori da 12mila euro al mese richiedere il contributo destinato ai più bisognosi, con il rifiuto da parte dell’Inps di renderne noti i nominativi in nome della privacy, fa anche risaltare qualcos’altro: la salvaguardia del diritto alla riservatezza può diventare un eccesso, trasformarsi in paravento utile a consolidare privilegi, a nascondere interessi personali, a farsi beffe degli altri. Solo se la cosa pubblica è davvero la «casa di vetro» descritta da Filippo Turati, con nulla da nascondere e quindi esposta allo sguardo dei cittadini, si può consolidare la fiducia nello Stato. Se non è questo un caso in cui esigere la chiarezza cristallina, con l’obbligo della trasparenza prevalente sul diritto alla riservatezza, quale altro lo è mai? Se non si è pronti a gestire la riprovazione sociale per i protagonisti di questa brutta storia, come possiamo pensare di fondare valori davvero condivisi?
Ora mettere in discussione il diritto alla privacy può risultare rischioso, impopolare, politicamente scorretto. Ma secondo quanto affermato alla voce «diritto alla riservatezza» della Treccani proprio da Stefano Rodotà, che ne fu il primo garante, «quando si rifiutano le informazioni necessarie ai programmi d’intervento sociale, la privacy si presenta come lo strumento per il consolidamento dei privilegi di un gruppo».
Sta di fatto che la privacy, fondamentale per la tutela di una serie di diritti democratici, rischia di trasformarsi in totem della cultura occidentale, ben oltre la necessaria salvaguardia di opinioni personali, identità sessuali, libertà individuali, informazioni personali, patrimoniali e sulla salute.
E c’è da dire che ne siamo diventati un po’ tutti ossessionati anche alla luce dei cyber attack, del trafugamento massivo di big data, delle violazioni di sistemi di sicurezza personali e aziendali. Così, ormai anche nella vita quotidiana la privacy viene spesso invocata o agita come canone monolitico, non scalfibile da riflessioni, eccezioni, elementi critici. Il che lascia segni non sempre apprezzabili anche in pratiche relazionali legate ad ambiti come quello scolastico. Ma questo finisce per cancellare responsabilità personali o percorsi sociali utili a consolidare valori importanti.
Eccone qualche esempio minimo, a prima vista poco pertinente ma non peregrino: l’abolizione dei «quadri» scolastici, sostituiti quasi dovunque da un semplice «ammissione-non ammissione». Sicuro che ciò risulti realmente utile alla tutela della privacy degli studenti? Ad avere dubbi in proposito è perfino il Garante della privacy, che ha sottolineato come da parte sua «non esiste alcun provvedimento che imponga di tenere segreti i voti» ed aggiunge di avere a cuore «il principio di trasparenza a garanzia di ciascuno».
E lo stesso sito del Ministero della Pubblica Istruzione precisa che “i voti dei compiti in classe e delle interrogazioni, gli esiti degli scrutini o degli esami di Stato sono pubblici”. Resta il fatto che la maggior parte degli istituti optano per la formula «ammissione-non ammissione». Rendendo difficile il confronto diretto tra gli studenti, veicolo di responsabilizzazione, di crescita personale e anche di una non deprecabile tensione al miglioramento dei propri risultati. Allo stesso modo, una norma impedisce di pubblicare in bacheca elenchi di morosità di chi è indietro con la propria quota nei pagamenti di condominii anche lussuosi.
Inevitabilmente, così si evita l’esposizione sociale diretta, ma in qualche caso consentirla – così come dovrebbe essere consentita a proposito dei cosiddetti furbetti del bonus Covid – potrebbe giovare al consolidamento di una sfera di valori diversa da quella vigente. Magari, fatta in modo che, per chi ha approfittato di una situazione, o della propria posizione, o del paravento della privacy a danni di altri, non venga usato più l’aggettivo vagamente assolutorio e un po’ ammiccante di «furbetto». Per usarne invece un altro, o parecchi altri resi disponibili dalla bella lingua italiana, più pertinenti, tali da non suggerire emulazione perché inequivocabilmente negativi.
La privacy complice dei furbetti
di Titti Marrone
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Martedì 11 Agosto 2020, 00:00
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