La nostra Borsa e le mire di Parigi

di Giuseppe Vegas
Sabato 21 Gennaio 2023, 00:00 - Ultimo agg. 07:00
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Nel 2022 abbiamo assistito alla fuga dalla Borsa di grandi imprese come Atlantia, che ha abbandonato la quotazione, o come Exor, emigrata in Olanda. In entrambi i casi si tratta di realtà importanti, che hanno fatto la storia del Paese. Certo, altre società sono entrate nel listino, ma quasi sempre di modeste dimensioni.

Il risultato è che la capitalizzazione complessiva delle imprese quotate presso Borsa Italiana è passata dal 36,4 per cento del Pil del 2019, l’anno prima della pandemia, al 25,4 per cento di fine 2022. 

Battersi il petto o cercare rimedi effimeri pur di rendere meno allarmante il problema, serve a poco. Occorre invece analizzarne i motivi.

Tra l’altro, il fenomeno risulta non facile da spiegare se si considerano le crescenti difficoltà che l’aumento dei tassi provoca alle imprese che utilizzano ordinariamente il canale bancario per finanziarsi. La concessione di qualche incentivo alle nuove quotazioni, come i 500 mila euro disposti nella legge di Bilancio, può essere interessante, ma non certo risolutiva. Più utili le semplificazioni di documenti e procedure per l’ammissione ai listini, anche se in alcuni casi, come il non richiedere più il piano industriale, sembrano trascurare l’esigenza di fornire dati essenziali agli investitori. Ma se si trattasse solo di rimuovere gli ostacoli all’entrata, non si spiegherebbe l’uscita dal listino di imprese che hanno necessità della maggiore notorietà data dalla quotazione, peraltro trovandosi così a ricorrere a un maggior numero di investitori se quotati in una Borsa straniera.

Da indagini sull’argomento risulta che l’abbandono dipende generalmente da due fenomeni. In primo luogo ha molto peso l’eccessivo gravame degli oneri di compliance, cioè degli adempimenti necessari in tutto il corso della vita dell’impresa per far fronte agli obblighi di stabilità e trasparenza. Ad essi si sono aggiunti recentemente quelli di sostenibilità (ambientale, sociale ed economica) imposti, oltre che dalla legge, dalle autorità di controllo dei mercati. Le Authority, infatti, nel rispetto dell’articolo 47 della Costituzione e mosse dall’intento di tutelare gli investitori, svolgono il fondamentale compito di vigilare sulle imprese che fanno appello al pubblico risparmio. Se si tratta di un’attività assai importante per i risparmiatori, tuttavia comporta la necessità di definire un sistema di regole che impone costi elevati alle imprese ed espone manager e proprietà ad un serio rischio di incappare in sanzioni pecuniarie e penali di entità non trascurabile.

In secondo luogo, va considerata la delusione di molte imprese di modeste dimensioni per il fatto di essere state ricacciate nell’oblio, dopo l’accendersi dei riflettori al momento della quotazione. Se i pochi, grazie alla pubblicità che ne deriva, sono riusciti a compiere quel salto di qualità che andavano perseguendo, i molti hanno visto i loro titoli trascurati dal mercato e dai piccoli risparmiatori, per essere oggetto di saltuarie incursioni da parte di operatori specializzati, che hanno aperto la via a possibili non graditi cambi di proprietà.

Insomma, una situazione non proprio confortevole, alimentata tra l’altro alla segmentazione del mercato borsistico.

La divisione in due - il FtseMib, cioè il mercato principale, e l’EGM (Euronext Growth Milan), che ha la funzione prevalente di servire da palestra per imprese piccole e piccolissime - non ha risolto il problema. Invece di mantenere una piattaforma di scambio dei titoli unica, anche se composta da diversi segmenti in ragione dell’importanza delle imprese, si è mirato ad attrarre il maggior numero possibile di società. Ne è derivata la scelta di creare, in Italia come anche in Gran Bretagna, due mercati paralleli: la Borsa vera e propria e una sorta di scuola guida dove per entrare basta il “foglio rosa”, ossia una documentazione assai ridotta, mentre i capitali investiti sono generalmente modesti e soprattutto manca la garanzia di attendibilità che deriva dal controllo pubblico: al momento non è prevista infatti la opportuna vigilanza della Consob.

In queste condizioni può accadere che le imprese neo-quotate restino prigioniere di un meccanismo che le mette nelle mani di fondi ed investitori istituzionali. Non a caso ad essi soli è riservato il finanziamento della prima quotazione. Gli stessi poi finiscono per governare, non diversamente da quanto farebbe un fondo di venture capital, i movimenti del titolo, che raramente entra nel portafoglio degli ordinari investitori al dettaglio.

Venendo alla questione della delocalizzazione della sede di quotazione, si deve innanzitutto notare che si tratta di un comportamento legittimo che riguarda quasi esclusivamente grandi imprese e che ultimamente riscuote un certo successo. In genere, se si desidera sbarcare su un mercato che offra maggiori opportunità, come ad esempio quello di New York, occorre però affrontare una procedura lunga e costosa. La circostanza invece che il gestore di Borsa Italiana sia oggi un soggetto che possiede anche le Borse di Parigi, Amsterdam e Dublino, consente di semplificare l’iter. Infatti, l’impresa quotata che, ipotizziamo per motivi fiscali, abbia già spostato la sua sede sociale in una giurisdizione europea con una tassazione meno onerosa, può giovarsi della presenza del medesimo gestore di Borsa per trasferire lì la propria quotazione. 

Sicuramente il sistema potrà consentire di rafforzare il peso del mercato finanziario europeo nei confronti di quelli degli altri continenti, ma se non temperato da adeguati correttivi, potrebbe rischiare di sacrificare i mercati nazionali periferici e i loro operatori. E per ciò che riguarda la Borsa Italiana sembra di capire che già oggi è più di un semplice timore: Parigi è sempre vicina.

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