Da Troisi alle gag di Totò: la storia
della“tazzulella” tra musica e film cult

Da Troisi alle gag di Totò: la storia della“tazzulella” tra musica e film cult
di Antonio Menna
Mercoledì 23 Marzo 2022, 23:45 - Ultimo agg. 25 Marzo, 08:16
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La parola è araba. La pianta è etiope. In Europa arriva prima a Vienna. In Italia la portano i veneziani. Ma alla fine ‘o cafè è napoletano. Ce lo siamo davvero scritto addosso, questo romanzo popolare del caffè, e lo abbiamo fatto così bene, insinuandolo così a fondo nelle abitudini, nella cultura del quotidiano, nei movimenti, nell’idea, nell’epica letteraria, nel racconto cinematografico, che oggi alla parola caffè segue subito Napoli. Non c’è la bevanda senza il rito. E non c’è il rito senza questa città.

E dire che questo strano intruglio a Napoli pareva addirittura portare male.

Nessuno voleva il caffè perché era nero. Ma ci pensò Maria Carolina D’Asburgo, sposa del re Ferdinando IV, a introdurre a corte l’abitudine viennese. Fine Settecento, il caffè del regno di Napoli.

E la coppia più profumata del mondo non si è più separata. La cuccuma entra in tutte le case e imperversa durante l’Ottocento. Anche questa, però, pur definita caffettiera napoletana, ha origini altrove: la inventa un francese. Insomma, dopo esserci presi il caffè, ci prendiamo anche la caffettiera. Tutto si mescola nella cultura popolare, non è dove nasce ma come vive, il rito, e qui esplode. Il numero 42 nella smorfia. La macchinetta di caffè gigante messa sul fuoco nei vicoli di Napoli mentre si gioca a tombola. La macchinetta sul fuoco se viene l’idraulico in casa, se i muratori lavorano in un cantiere vicino. Entra, metto a fare il caffè: è la prima frase quando bussi a una porta. Scendiamo a prendere un caffè, è l’espressione più attesa durante una mattinata di lavoro. Il caffè che spezza il ritmo, quello che fa tirare il fiato. Prima il bicchiere d’acqua, mi raccomando. Un caffè per fare due chiacchiere, per chiarirsi, per fare pace, un caffè per il primo appuntamento e vedere se ci si piace. Il caffè sospeso lasciato pagato al bar, per chi non se lo può permettere. Basta la parola per fermarsi un attimo. Non la bevanda, nemmeno la sua qualità - robusta, arabica, ma che importa? - ma quella intercapedine, una lama di luce in una porta aperta, infilarsi dentro la pausa caffè, fermiamoci un po’, relax. E il caffè, con lo zucchero, compone il “cuonsolo”, il regalo per eccellenza che si porta a chi ha subito un lutto, come se andasse accompagnato innanzitutto in un risveglio del mattino non troppo amaro. 

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“Che stress, questo traffico, nun me ne parlate”, diceva sbuffando un vigile urbano in divisa in Così parlò Bellavista, mentre sorseggiava un caffè al bar. “Vi siete mai chiesti che cos’è un caffè? - domandò una volta l’ingegnere De Crescenzo -. Un caffè è una scusa per dire a un amico che gli vuoi bene”. Ma Totò, nella Banda degli onesti, il caffè al bar lo utilizzò per spiegare a Peppino De Filippo (Lo Turco) come funziona il capitalismo: a uno il caffè amaro, all’altro la tazzina colma di zucchero fino all’orlo. Per Eduardo De Filippo, in Questi fantasmi, più della bevanda - a cui dedicava un rito minuzioso - poteva il bisogno di pigliarsi “nu poco ‘e sole” sul terrazzino, mentre per Nino Manfredi, invalido napoletano che in Cafè express (film di Nanni Loy) passa con un thermos a vendere abusivamente caffè sul treno Vallo della Lucania-Napoli, la bevanda serve a raccogliere storie, ad ascoltare gli uomini.

“Ah, che bellu cafè, pure in carcere ‘o sanno fa, co’ ‘a recetta ch’a Cicirinella compagno di cella ci ha dato mammà”, è il ritornello di Don Raffaè, la canzone che il cantautore genovese Fabrizio De Andrè ha dedicato alla situazione delle carceri. E il verso rimanda a un’altra celebrazione, quella di Domenico Modugno, che al caffè napoletano, con le parole di Riccardo Pazzaglia, dedicò nel 1958 un brano famosissimo. “Pe’ vevere ‘o cafe’ se trova ‘a scusa, Io ll’offro a ‘n’ato e ‘n’ato ll’offre a me; nisciuno dice “no” pecche’ è n’offesa. So’ già sei tazze”. “Questo caffè è una ciofeca!” sbraitava, invece, il principe De Curtis nel film “Totò a Colori” facendo dilagare, da quel momento, un termine diventato di uso comune per indicare un caffè imbevibile. No, grazie, il caffè mi rende nervoso, urlava, infine, Lello Arena nel suo indimenticato film, dove l’ironia sulla napoletanità si coniugava già con l’amore critico, un po’ aspro, che abbiamo poi imparato ad amare (amaro) in Massimo Troisi e in Pino Daniele, che cantava già, in “Na’ tazzulella ‘e cafè”, che “Nuje ce puzzammo e famme, o sanno tutte quante; e invece e c’aiutà - e qui la parola diventa profetica - c’abboffano ‘e cafè”. 
 

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