Dalla Jugoslavia a Victor Orban, se i populismi vanno nel pallone

di Massimo Adinolfi
Giovedì 24 Giugno 2021, 00:00 - Ultimo agg. 06:00
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Non c’è mica solo Orbán, che per non divenire bersaglio della protesta contro la legge omofoba approvata dal suo Paese ha rinunciato a recarsi a Monaco: non assisterà alla partita Germania-Ungheria (decisiva per la qualificazione agli ottavi) e farà orecchie da mercante se l’Unione europea continuerà a richiamarlo (vanamente, per ora) al rispetto dei diritti umani. Di tutti: anche di quelli che al leader ungherese dispiacciono. Ceferin, il gran capo dell’Uefa, dice che la politica non deve mischiarsi col calcio: non potrebbe dire diversamente. Ma come è possibile che non si immischi, visto che il calcio costituisce il più potente veicolo pubblicitario al mondo?

Visto il potere e la fama che il calcio conferisce a chi vince, viste le passioni che suscita, gli interessi che smuove? Ronaldo sposta una bottiglietta di Coca-Cola e il mondo intero ne parla, la Borsa ha un sussulto e l’opinine pubblica si divide immediatamente a proposito del suo gesto: volete dunque che gli stadi non siano teatro di gesti simbolici, di proteste più o meno esplicite, di celebrazione o di contestazione del potere?

Del resto, non occcorre guardare molto lontano. Prima ancora che questi Europei cominciassero, era scoppiata la grana della maglia dell’Ucraina, che recava il disegno dei confini nazionali, penisola di Crimea compresa. Apriti cielo! La Russia, che quella penisola se l’è annessa meno di dieci anni fa (i due paesi sono tuttora, di fatto, belligeranti) ha vivacemente protestato con l’Uefa, e meno male che le due squadre, non si incontreranno in campo, perché sarebbero state scintille.

Scintille ci sono state fra Serbia e Albania nella partita di qualificazione agli scorsi Europei: era la prima volta che le due Nazionali giocavano l’una contro l’altra. Al 41’ del primo tempo, un drone sorvola il terreno di gioco e fa sventolare la bandiera della “Grande Albania”, includente anche il Kosovo. Scoppia il finimondo: per i serbi, che ovviamente considerano la regione cosa loro, è una provocazione inaccettabile. Rissa, fumogeni, invasione di campo, partita sospesa.

I Balcani, si sa, sono sempre stati una polveriera. È sufficiente allora un breve salto indietro e atterrare sul campo di gioco della Dinamo Zagabria, nella storica partita che la vide opposta alla Stella Rossa di Belgrado, per vedere come geopolitica e calcio possano fare tutt’uno. Siamo nel 1990, il nazionalismo acceso dei croati e dei serbi sta per mandare in frantumi la Jugoslavia. Il secessionismo dei primi non può non scontrarsi con l’annessionismo dei secondi e precipitare la regione in un lungo ciclo di guerre.

Il calcio offre l’anteprima: gli scontri tra tifosi dilagano in campo e si rende necessario l’intervento della polizia con tanto di autoblindi e tenuta antisommossa, per evitare il peggio.

Ma anche i Mondiali sono stati investiti di sensi che trascendono ampiamente la vicenda sportiva. L’Italia di Vittorio Pozzo, che vince due mondiali di fila, negli anni Trenta, doveva essere il portabandiera del regime fascista ai suoi massimi di consenso. E quando, nel dopoguerra, il Brasile populista di Getúlio Vargas, l’uomo forte che guidò il Paese per quasi ventanni, chiese di organizzare i mondiali, l’idea era sempre quella: celebrare il regime con una vittoria, come aveva fatto il Duce, nelll’enorme stadio costruito per l’occasione, il Maracanà. Le ciambelle, però, non sempre riescono col buco e dinanzi a duecentomila spettatori furono gli uruguagi a vincere il Mondiale (poi arriverà Pelé e cambieranno le cose).

All’Argentina andò meglio: nel ’78, primi mondiali organizzati dalla Biancoceleste e primo posto. Nonostante la sconfitta nel girone di qualificazione con l’Italia di Bearzot e Pablito Rossi. E soprattutto nonostante El Flaco, l’allenatore, César Luis Menotti, iscritto al partito comunista. «Vinciamo per alleviare il dolore del popolo», diceva, ma per la Giunta militare, salita al potere un paio di anni prima, quei successi erano il modo migliore per nascondere la tragedia politica del Paese: gli arresti, le torture, i desaparecidos.

Infine lui, Joseph Mwepu Ilunga. Gioca nello Zaire, alla prima partecipazione di una squadra africana ai Mondiali, ed è in barriera, contro il Brasile. Prima che l’arbitro fischi, si stacca dai compagni e corre a calciare via il pallone. Una scena mai vista, una punizione al contrario: possibile che non conosca le regole? No, le regole le conosce. Ma mancano pochi minuti alla fine della partita, lo Zaire è sotto di tre gol e il dittatore Mobutu non ci sta a far brutta figura: prima del match, ai calciatori che avevano già rimediato un nove a zero dalla Jugoslavia promette che non avrebbero fatto ritorno a casa, se avessero preso più di tre gol. Quando Mwepu Ilunga calcia via il pallone non ha in testa che questo. Il Brasile non segnò altri gol, i «leopardi» zairesi poterono rientrare, e il calcio tornare a essere una strana guerra con la palla, condotta soltanto coi piedi e senza spargimento di sangue. 

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