L’anomalia azzurra che ha stregato il calcio europeo

di Marco Ciriello
Giovedì 6 Ottobre 2022, 00:00 - Ultimo agg. 06:00
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Alla terza partita, la seconda vinta in trasferta in Champions League, tutta l’Europa – calcistica – ha capito che Napoli è tornata capitale, più di Parigi – pallonara – al pari di Londra e Madrid. Durerà poco? Durerà tanto? Il calcio e la vita sono adesso, tanto con una possibile guerra nucleare, cosa è il domani? E allora Vico entra in Spalletti che dribbla Leopardi e passa a Morin tanto poi Raspadori segna uguale. Il gioco del Napoli da qualunque punto di vista o settore lo si guardi è una anomalia italiana che trova spazio in Europa iscrivendosi – pare – con facilità agli ottavi di Champions League, e a una nuova fase di pallone e non solo, certo se Kim non si spara sui piedi, se Kvaratskhelia non prende il Covid, se Lobotka si rimette a mangiare, se Anguissa impazzisce, se il Vesuvio erutta, ecco troppe varianti ci dicono della sicurezza del progetto.

Il Napoli, partito con una mestizia da “Ne me quitte pas” a ridosso della chiusura del calciomercato, adesso sembra Mozart de “Il flauto magico”, al pari solo del Bayern Monaco – almeno a guardare questo terzo giro di partite. E allora per una volta zero premura verso la scaramanzia, tanto gli altri lo dicono già: allenatori e calciatori sono rimasti stupiti, non è facile andare a segnare tre gol in Scozia, come sei in Olanda, o darne quattro al Liverpool, per quanto stropicciato, di Jürgen Klopp. Il Napoli di Champions non teme l’assalto a uomo dell’Ajax, ribattendo colpo su colpo, persino ribaltando uno svantaggio in uno stadio di fuoco, come non teme la gloria degli altri, e questo è un dato nuovo, dovuto al fatto che ha una geografia calcistico-emotiva differente e una fisicità prorompente anche nei più piccoli. Gioca a viso aperto, che tradotto significa che molti dei gol – come ora sa bene Alfred Schreuder, allenatore dell’Ajax – derivano da recuperi palla (pressing) alti, cioè impossibilità di movimento e ragionamento dell’impostazione avversaria, con una difesa che pesta i piedi a centrocampo; due terzini che spingono molto – nel caso della sera olandese Di Lorenzo e Olivera, ma va aggiunto Mario Rui nelle altre partite –, alternati o anche insieme, a riprova che il Napoli spinge tantissimo e non ha paura di giocare dietro l’uno contro uno: come ha insegnato l’architetto degli esterni Gian Piero Gasperini.

E poi ci sono le ali, se Politano e Lozano svolgono ottimamente il compito storico, Kvara incarna “l’irrazionale baggesco”: cioè la capacità di andare sempre oltre l’oltre. Dove c’è un dribbling pazzesco ne arriverà un secondo, e dove sembra essere finita la fantasia, con un difensore che ne ha preso le misure, ecco l’irrazionale, e cioè l’improvviso calcistico che irrompe in area e segna persino. 

Senza gettare croci sul passato, senza far pesare le storie, è evidente che Kvara ha qualcosa da Gengis Khan, un cavalcare in cerca della frontiera, con una forza che è oltreuropea. Lo stesso discorso vale per Kim, è difficile trovare un adattamento così immediato con controllo del territorio, la Casa Bianca ne comprerebbe subito il brevetto, visto che dal Vietnam all’Afghanistan provano quello che al difensore sudcoreano è riuscito in due mesi. Su Raspadori – quello che sembrava venire in ultimo come il corvo di Calvino – ci sarebbe solo da intervistare Wayne Rooney, e poi Diego Simeone per suo figlio, due staffette: la prima senza legami di sangue. 

Infine i tre colonizzatori del centrocampo: Lobotka, Anguissa, Zielinski, implacabili e geometrici, fisici e palleggianti, come se giocassero in Premier League e quindi nella vera Europa del calcio, che nemmeno la Brexit ha cancellato: cioè l’Inghilterra. È un Napoli dei nomi del domani, del futuro, dell’anno che verrà. Non ha i Messi, i Neymar né Mbappè e nemmeno palloni d’oro in pectore come Benzema, ma uno spirito alpino, da arrampicata, che lo rende sfacciato, come lo erano solo le squadre di Brian Clough. Viene da evocare il primo Barcellona di Pep Guardiola, ma senza tiki-taka e con più verticalità, quasi che il divertimento fosse nell’andare in porta e non nel tenere palla, in questa irruenza c’è l’unica vena di calcio italiano. Il resto è una squadra europea che non ha cancellato l’Est e che ha inglobato l’Africa, quasi una lezione politica. Quando tutto sembra perduto c’è Napoli, l’ultima speranza per l’umanità diceva Luciano De Crescenzo, la penultima per il calcio italiano. 

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