Superman Osi, il bomber 4.0

di Marco Ciriello
Mercoledì 1 Febbraio 2023, 00:00 - Ultimo agg. 06:00
4 Minuti di Lettura

Osimhen è voluttuosamente, furiosamente, deliberatamente unico, come ogni grande calciatore, ma è evidente che si iscriva a una sequenza di movimenti di altri calciatori unici che lo hanno preceduto, di cui evoca i gesti, declinandoli a una velocità superiore. I paragoni sono parte del calcio, come i déjà-vu. Cosa e chi c’è nel suo gol alla Roma?

Stop di petto, pallone che scende sinuoso sulla coscia e poi botta d’esterno, c’è Marco Van Basten, cigno e drago, come nel gol dell’andata sempre alla squadra di Mourinho. In altri gol, dribbling, movimenti, soprattutto in propulsione e capacità di rimuovere di peso gli avversari e/o dribblarli in corsa: ci sono Drogba e Weah, l’attaccante nigeriano riesce ad attraversare il campo – al punto di farlo apparire piccolo per i suoi movimenti – e a dominarlo, mostrando una improvvisa maturità che prima appariva solo a sprazzi. Un demone, con un individualismo attivo, capace ogni volta di rinnovarsi, con un movimento conosciuto ma ad una velocità sconosciuta.

È nel salto temporale che si disegna la sua unicità. Perché se guardiamo alla propensione acrobatica, alla voglia e alla capacità di spendersi e spandersi in area, tocca scomodare Gigi Riva, che non conosce, ma che è parte fondante del DNA del calcio, una notizia che si acquisisce naturalmente, soprattutto quando si gioca in squadre che non vincono con facilità. Di Riva c’è la forza nel tiro, certi diagonali e chiaramente l’uso della testa, qualcosa deve essere rimasto del gol che – il gran lombardo – segnò a Napoli in tuffo con la Nazionale. Qualcosa rimane tra le linee delle aree di rigore e gli almanacchi.

Stadio San Paolo di Napoli, 22 novembre 1969, Italia contro Germania Est. Osimhen è ancora impuro, sporca i movimenti, c’è della ruggine, ma ha quella forza fisica e immaginativa e quel voler andare a cercare il gol, fino a pretenderlo. Un Houdini-Riva che però si fa ancora male, conserva qualche scompostezza, non esce nella perfezione.

Ma è giovane, c’è tempo, e si spera un tempo tutto napoletano e non inglese. Se, invece, si guardano solo le sue lunghe gambe viene subito in mente: Florence Joyner Griffith, Flo-Jo per l’America, una freccia nera che attraversa i campi verdi e fa vedere rosso ai difensori. E subito dopo Ibrahimovic, perché le alza da karateka come lui, provando anche tacchi e appoggi dove altri ci vanno di testa, più comodamente.

Infine c’è il ritmo con il suo eccesso di libertà, che sta diventando la sua forza, fino a farne un Michael Jackson col pallone, che avanza tra finte e moonwalk, frenate e ripartenze. Un moloch figlio dell’evoluzione del calcio, ancora molto selvaggio, già in scia dell’educatissimo Erling Haaland, niente di più diverso, ma ormai quasi stesso peso nelle partite. Il norvegese parte pettinato – sportivamente – per nascita ed obiettivi, ed è per forza in vantaggio, ma Osimhen ha il privilegio della sregolatezza, dell’essere l’inatteso, il sottovalutato – in questo caso da tutti ma non da Giuntoli che si trovò a guardare entrambi – dai grandi esperti della Selezione, ora tutti in retromarcia. Osservatori, dotti e sapienti sono costretti a inseguirlo col fiatone, provando a decifrarne i movimenti, a segmentarne i gol. Intanto è passato: tra difese e giudizi, infortuni e prestazioni sbagliate, adesso è nella prima classe del calcio, a ridosso dei grandi, e a fine stagione lo sarà ancora di più. Perché Osimhen è una idea di libertà prima ancora d’essere un attaccante. Una libertà che lo porta a prevalere nel caos sotto porta, nelle mischie o sui traversoni: che sia Mario Rui o Kvaratskhelia non importa, se il cross è morbido va bene e se non lo è va bene lo stesso, ci penserà il suo corpo – Frankenstein – a trovare un modo per mettere la palla in porta, tirando fuori uno dei tanti colpi d’artista che contiene, portando il subbuglio tra le linee difensive.

© RIPRODUZIONE RISERVATA