Caravaggio, l'ultimo duello: il giallo della tela di Tolosa

di Pietro Treccagnoli
Mercoledì 13 Aprile 2016, 23:43
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«Fare è facile, è copiare che è difficile»: così parlò Scorcelletti-Totò, il più famoso copista del cinema comico italiano, specializzato nella riproduzione della Maya in tutte le mise alla moda degli anni Cinquanta in bianco e nero. Il pennello proibito è però un canone della pittura da secoli. Il mercato delle copie nell’arte moderna è sempre stato fiorente e la riproducibilità tecnica non l’ha inventata Walter Benjamin nel Novecento. 

gni secolo ha avuto la sua riproducibilità. E in questa parola, tecnica, c’è una delle chiavi per venire a capo del giallo del Caravaggio scovato in Francia, nell’intercapedine di una soffitta a Tolosa. La «Giuditta e Oloferne» ritrovata di Michelangelo Merisi sarebbe stata dipinta a Napoli e ha una gemella attribuita allo Scorcelletti del Barocco (bravissimo, tra l’altro), il copista Louis Finson. Si trova nella Galleria di Banca Intesa a Palazzo Zevallos, a via Toledo. Ma, a sentire qualche addetto ai lavori, non si può escludere che quella d’Oltralpe, presentata in pompa magna come autentica, possa essere, invece, un’altra copia ancora e non l’originale. La polemica, servita come un piatto prelibato, divede la critica e gli esperti, va sans dire. È un classico. Ma in ballo ci sono anche una barca di soldi e le solite furbizie del mercato. La massima esperta di Caravaggio, la ultranovantenne, Mina Gregori, ha molti dubbi sull’autenticità e propende per un no. Il punto è che sono in pochi ad aver visto l’originale. La maggior parte, per ora, deve accontentarsi delle riproduzioni digitali e della cornice del racconto sul ritrovamento e sulle varie peregrinazione della tela. La sintesi la dà Vittorio Sgarbi con una battuta: «Opera buona, storia falsa». Ovvero? «Probabilmente è del Caravaggio» spiega lo storico dell’arte. «Oloferne, a giudicare da quello che s’è visto, è una figura coerente con lo stile di Merisi. Gli altri due personaggi mi convincono meno: la vecchia è troppo rugosa e Giuditta mi appare generica». A renderlo scettico è la storia del ritrovamento rocambolesco: «La faccenda della soffitta ha il sapore di una bufala».

Effettivamente pare ricalcare la commedia di Pietrangeli, «Fantasmi a Roma», con un finto Caravaggio affrescato in un suppigno, opera invece di un altrettanto sanguigno Caparra, totalmente inventato. «La storia» aggiunge Sgarbi «è stata creata per dare una verginità francese alla tela, per impedire che possa essere richiesta dall’Italia. Secondo le leggi del nostro Paese un’opera d’arte come quella di Caravaggio non può essere ceduta a compratori stranieri, deve restare da noi. In Francia no, si può venderla al prezzo che si riesce a ottenere a chi si vuole, dovunque si trovi. Magari questa “Giuditta” era in Italia fino a qualche mese prima in cui è stata vista dai primi esperti in Francia». Tra i quali c’è l’ex-sovrintendente al Polo Museale di Napoli, Nicola Spinosa, uno dei massimi conoscitori del genio lombardo. Ha ammirato la «Giuditta» almeno quattro volte. La prima nel 2014. L’ultima insieme a uno dei più noti restauratori di Caravaggio, il napoletano Bruno Arciprete, convinto come lui dell’autenticità. Spinosa è rimasto incantato, «inebriato dai giochi di luci e ombre, dall’intensità dei colori» della tela e non ha dubbi perché solo Caravaggio sa rendere la «grande tensione drammatica» di quei volti. Un sì netto. E più contemplava la «Giuditta» più il giudizio diventava netto. Il fronte del no, o perlomeno della perplessità, ha ragioni altrettanto valide da mettere sul tavolo. Valeria Merlini, che ha curato il restauro di ben tre capolavori del maestro del Seicento («La Madonna dei Pellegrini», «La Conversione di Saulo» e «L’Adorazione dei Pastori di Messina»), è scettica, sebbene metta le mani avanti, non avendo visto la novella «Giuditta» da vicino. Preliminarmente contesta la presentazione, troppo da circo mediatico: «È una scoperta interessante, però occorrono approfondimenti». E insinua una bella raffica di dubbi: «La “Giuditta” di Palazzo Zevallos a Napoli è ritenuta una copia di Finson, però, vista la forte somiglianza, non possiamo escludere che anche l’opera trovata a Tolone sia una copia». Due copie non fanno un originale, è chiaro. «Troppe similitudini, alcune incredibili. E poi Caravaggio a Napoli è rimasto poco e non è possibile che vi abbia realizzato tutte le opere che gli attribuiscono in quel periodo». Possiamo escludere, vista la somiglianza e per paradosso, che quella di Napoli sia l’originale e la francese una copia? «Non si può escludere. Addirittura potrebbe esserci una terza copia. Michelangelo Merisi, già quando era in vita, era al centro di un collezionismo molto forte e le copie, a quasi tempi, erano una prassi». Il giallo si addice a Caravaggio. L’eterno fuggitivo, il perseguitato, lo spavaldo, genio e sregolatezza, il Maradona della pittura, il pennello di Dios. Di tutto, di più, a cornice di una produzione che ha sconvolto per sempre i canoni dell’arte. Ma davvero questo capolavoro riemerso dal passato può valere, come si dice, 120 milioni di euro? «È difficilissimo stabilire quale sia il valore commerciale di un Caravaggio» chiarisce la Merlini. «Di sue opere di serie A, indiscutibilmente attribuite a lui, sul mercato non ce ne sono. Circolano quelle di serie B, ancora incerte. Di sicuro se fosse un Finson, o altro, il valore scenderebbe precipitosamente a 100mila euro. Si capisce, quindi, il grande clamore che ha caratterizzato l’annuncio».

Dubbi ne ha pure Philippe Daverio, storico dell’arte e divulgatore televisivo: «Sono contento che sia stato ritrovato, ma non sono totalmente convinto dell’originalità.
Ho visto finora solo le riproduzioni digitali e non me la sentirei di mettere la mano sul fuoco. Rispetto ad altre stesure caravaggesche mi sembra stilisticamente più rozzo. Nel quadro c’è troppa teatralità ostentata che va contro l’essenzialità del maestro lombardo. Caravaggio non faceva realismo, produceva realtà. E poi la storia del ritrovamento è troppo romanzesca e non depone a favore dell’autenticità». Urge un confronto all’americana tra il Finson conclamato e il Caravaggio del giallo. Lo propone Michele Coppola, direttore delle Gallerie d’Italia di Banca Intesa che possiede ed espone a via Toledo, oltre alla «Giuditta» copiata dal pittore fiammingo, anche l’ultima opera di Merisi, «Il Martirio di sant’Orsola». «Mettere le due “Giuditte” una accanto all’altra» commenta «è stato il nostro primo pensiero. Siamo pronti a collaborare per lo studio e la definitiva attribuzione, magari ospitando, per qualche settimana, l’opera di Tolosa come abbiamo già fatto per il “Ritratto d’uomo” di Antonello da Messina e la “Santa Caterina” di Ribera». Dipinta o non dipinta a Napoli, quindi, è da Napoli che potrebbe passare l’ultimo sigillo.


 
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