Carceri, primo obiettivo: formazione del personale

di Antonio Mattone
Mercoledì 14 Luglio 2021, 23:30 - Ultimo agg. 15 Luglio, 06:00
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Non può esserci giustizia dove c’è abuso. E non può esserci rieducazione dove c’è sopruso». Le parole pronunciate dal presidente del Consiglio Mario Draghi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere sono una inequivocabile presa di posizione di fronte ai gravi fatti avvenuti il 6 aprile 2020 nell’istituto sammaritano. Lo Stato non si può identificare negli autori dei brutali pestaggi compiuti da uomini in divisa, e si riappropria di uno spazio sottratto alla giustizia.

La storica visita di ieri di Draghi e del ministro della Giustizia Marta Cartabia rappresenta molto di più delle ferme dichiarazioni di condanna dei pestaggi. Innanzitutto, l’essere andati insieme manifesta la volontà di un’assunzione di responsabilità del Governo di fronte all’emergenza del sistema penitenziario che - come ha detto la Guardasigilli - con la diffusione della pandemia ha fatto esplodere tutti i problemi irrisolti da troppo tempo, mai affrontati perché quello del carcere è considerato un mondo marginale e privo di interesse.

Ma ciò che accade nelle carceri riguarda invece tutti, come ha ricordato il ministro Cartabia, sottolineando che è necessaria una presa in carico collettiva dinanzi alle problematiche vecchie e nuove di un contesto così complesso. Sovraffollamento, strutture fatiscenti e prive dei servizi essenziali – ricordo che a Santa Maria Capua Vetere, un istituto costruito negli anni ’90 manca la rete idrica -, carenza di personale e assenza di formazione, sono stati i punti critici toccati dalla ministra della Giustizia.

Appare evidente che i fatti accaduti nella struttura di Santa Maria Capua Vetere non sono un evento isolato, opera di mele marce. Non possono essere momenti di follia collettiva, ma fanno parte di un modus operandi che non si improvvisa. E’ un retroterra culturale che si nutre di frustrazioni, di carenze formative, di banalizzazioni sociali. Una mentalità che si fa forza della certezza dell’impunità. Così come bisogna dire che, al contrario, ci sono tanti poliziotti penitenziari che cercano di fare il loro lavoro con scrupolo e coscienza. Ne conosco diversi nel carcere di Poggioreale intitolato a Giuseppe Salvia, un fedele servitore dello Stato capace di coniugare fermezza e umanità, assassinato nel 1981 dalla Nco di Raffaele Cutolo.

Allora la formazione del personale mi sembra uno dei punti decisivi per evitare che si ripetano pestaggi e violenze. La popolazione carceraria oggi è cambiata ed oltre agli esponenti della malavita organizzata e ai personaggi della microcriminalità, ci sono numerosi detenuti espressione del disagio sociale delle nostre città: malati psichici, immigrati, senza dimora, tossicodipendenti, che approdano al carcere dopo essere stati abbandonati dalla scuola e dalla famiglia.

In Italia ci sono ben mille detenuti analfabeti. Questo dato rappresenta una domanda e richiede un approccio specifico per affrontare le differenti problematiche di queste persone. Cambia la società ma il carcere resta uguale a se stesso.

Dobbiamo anche dire che dopo la condanna della Commissione Europea all’Italia del 2013 furono promossi dall’allora ministro per la Giustizia Andrea Orlando gli Stati generali dell’esecuzione penale esterna, una discussione di oltre 200 esperti che rappresentò una fonte di proposte e di idee per riformare il sistema penitenziario, puntando alle misure alternative e alla responsabilizzazione del detenuto.

La stessa Guardasigilli ha ricordato nel suo intervento di ieri che bisogna modificare la misura penale incentrata solo sul carcere, ricordando che la Costituzione parla di pene al plurale, e che la detenzione non è l’unico modo per scontare una sanzione penale.

Sappiamo come è andata. Prima delle scorse elezioni la Riforma fu affossata perché il tema non era popolare e si temevano conseguenze negative sull’elettorato. Il carcere non porta voti. E allora meglio rimuovere tutto e non parlarne più.

Invece ci sarebbe bisogno di più educatori, assistenti sociali, psicologi, di incrementare il numero di agenti penitenziari, di personale direttivo. Ricordo che alla fine di questo mese comincia il concorso per direttori di carcere, un piccolo numero che non consente neanche di coprire il turn over, visto che l’ultimo concorso era stato espletato nel 1997. Ma anche che nell’istituto di Poggioreale c’è una pianta organica di appena 10 educatori a fronte di oltre 2100 carcerati, tanto che un’educatrice mi dice che “di alcuni detenuti non ne conosce neanche il volto”. Occorre inoltre aprire il carcere alla società esterna, creando una contaminazione culturale positiva.

Per fare del carcere l’inizio di un nuovo percorso di vita c’è bisogno di tutte queste cose, ma occorre soprattutto una grande attenzione a questo mondo. Ci auguriamo che dopo la visita di Draghi e Cartabia i riflettori non si spengano, ma si possa ripartire proprio da Santa Maria Capua Vetere per cominciare una nuova stagione di riforme. Ricordando che il carcere che umilia i detenuti e li deresponsabilizza, oltre a non essere degno di un Paese civile, aumenta la recidiva e non la sicurezza. 

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