Castel dell’Ovo, la strategia dei rappezzi non funziona

di Fabrizio Coscia
Mercoledì 14 Settembre 2022, 23:47 - Ultimo agg. 15 Settembre, 06:00
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Piovono pietre sulla città. Ancora una volta. Un triste copione che si ripete, come una condanna, un destino, una nemesi da scontare. È durata poco la riapertura di Castel dell’Ovo. La caduta di calcinacci avvenuta martedì ha costretto a una nuova chiusura, a tempo indeterminato. Era successo già la scorsa primavera, dal 14 aprile al 6 maggio dover rinunciare a uno dei simboli della città. Ma i lavori di messa in sicurezza non sono bastati. E dunque si torna a chiudere, con il danno di immagine e di sostanza che ne consegue per una città che fatica a raggiungere la sospirata normalità che vorremmo. 

Una città che vanta agli altri e a sé stessa l’eccezionalità dei suoi monumenti, ma che alla fine dei conti non riesce a custodire le sue ricchezze. La chiusura del Castel dell’Ovo è infatti solo l’ultima delle emergenze: la Villa Comunale solo da qualche mese interessata da un parziale restyling. 

Nel degrado versano la Floridiana, il Belvedere di San Martino, le gallerie Umberto e Principe di Napoli sono solo alcuni dei siti storico-artistici abbandonati a un inesorabile declino. Per non parlare della situazione generale in cui versano ampie zone cittadine, con la cronica emergenza rifiuti, il caos stradale aggravato dai cantieri aperti, la violenza minorile che imperversa e il disastro conclamato del trasporto pubblico. Il tutto sotto gli occhi dei turisti che si trovano di fronte una città sempre più simile a una vecchia signora intenta a darsi un belletto d’occasione per nascondere maldestramente i danni del tempo e dell’incuria. 

Una città che assomiglia sempre più alla Napoli immaginata da Nicola Pugliese nel suo romanzo «Malacqua», pubblicato quarantacinque anni fa, dove si leggono frasi come questa, ad esempio: «C’è stato il crollo, la voragine. Ma in definitiva nulla di nuovo, nulla di estremamente insolito, in definitiva».

Proprio come nelle pagine di Pugliese, a colpire e a far male è il senso di risaputo, di consuetudine con cui ormai accogliamo questo stillicidio di crolli e di inefficienze, di per sé gravissimi, come se fossimo assuefatti a tutto.

Ma guai a rassegnarsi alla città fragile e svilita. Sarebbe come affondare definitivamente insieme a essa. Dovremmo, forse, gonfiare meno il petto per un sempre più inopportuno «orgoglio napoletano», basato esclusivamente sulle bellezze elargite dalla natura, senza nessun merito da parte nostra, impermalosirci di meno di fronte a frasi di (apparente) lesa maestà, e cominciare a capire che l’amore ha a che fare con la manutenzione degli affetti, con l’impegno e il rispetto quotidiani da esigere prima di tutto da noi stessi e in secondo luogo da chi ci amministra. Le due cose non possono essere disgiunte. E a questo proposito dispiace rimarcare ancora un volta quanto manchi, da parte delle istituzioni cittadine, una visione d’insieme, un progetto complessivo sugli interventi da realizzare. Ciò a cui ancora assistiamo è la solita corsa a tamponare un’emorragia di emergenze, la ormai inveterata attitudine a salvare il salvabile. Ma amministrare una città che ambisca a raggiungere un primato di eccellenza, vuol dire avere un’idea chiara e precisa di questa eccellenza e lavorare affinché si tramuti in realtà, garantendo ai cittadini una qualità della vita - in termini di sicurezza, servizi offerti, valorizzazione di monumenti e siti, smart mobility, ecosostenibilità, diritto al lavoro - da cui Napoli è ancora, purtroppo, lontanissima. Quanto lontana, può scoprirlo chiunque abbia avuto la ventura di visitare qualche grande metropoli europea, questa estate, e la sventura di ritornare in città, ripiombando subito nello sconforto.

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