Chiese vuote, ma Dio non è morto con il Covid

di Bruno Forte *
Lunedì 6 Dicembre 2021, 23:30 - Ultimo agg. 7 Dicembre, 06:00
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Con l’esperienza della pandemia il rapporto di tanti fedeli con Dio è entrato in crisi? E il distanziamento e l’isolamento che essa ha comportato hanno portato a pensare che non fosse poi così necessario unirsi ad altri per le celebrazioni liturgiche o anche semplicemente per pregare insieme? La risposta a queste domande è meno semplice di quello che si possa pensare.

Da una parte l’evidenza dello svuotarsi delle chiese durante l’emergenza CoVid è sotto gli occhi di tutti. Tuttavia, il rispondere a un’urgenza e perfino l’obbedire responsabile a una indicazione di prudenza non devono essere confusi con un ipotetico allontanamento da Dio. Sono molti, anzi, i segnali che dicono il contrario: la richiesta di preghiere è notevolmente cresciuta da parte non solo di persone provate dalla malattia, ma anche dai loro cari e da quanti, sani, chiedevano al Signore di essere protetti e dispensati dal tunnel oscuro dell’infermità.

Tante sono le forme in cui questa richiesta si è espressa: dalla domanda rivolta anche da persone tiepide nella fede a familiari e conoscenti perché pregassero per loro, ai pellegrinaggi a santuari e luoghi di speciale devozione, che sono andati riprendendo e aumentando per chiedere grazie e soccorso, al ricorso ai cappellani ospedalieri per avere il conforto dei sacramenti e la parola della fede. Dio non è morto nel CoVid: se poteva esserlo prima agli occhi di tanti sedotti dall’edonismo consumistico dominante, il Suo ritorno nel tempo della prova è esperienza diffusa, che non esclude certo quella della protesta o del rifiuto, che tuttavia non sempre sono segno di negazione del Suo amore, quanto piuttosto di amarezza e di delusione da parte di chi pensava di amarlo. Un grande figlio della Napoli barocca, Sant’Alfonso de’ Liguori, non esitava ad affermare: “Chi soffre molto e bestemmia, sta dicendo le litanie!”. 

E l’assenza di tanti dalle celebrazioni liturgiche, perdurante anche dopo la fine delle varie ondate, come va vista? Certamente, la pandemia ha indotto in tanti la paura dei rapporti umani: l’altro, che proprio la liturgia insegna a riconoscere non solo come compagno in umanità, ma anche e soprattutto come fratello, è apparso improvvisamente come il possibile trasmettitore di contagio, e dunque come pericolo da evitare o da cui tenersi comunque a distanza. Prossimità liturgica e distanziamento sono esigenze opposte e, per quanto le chiese si siano attrezzate in sanificazioni e misure precauzionali anti CoVid, la paura di assembramenti possibili ha indotto non pochi - soprattutto fra gli anziani, che erano spesso i più numerosi nelle assemblee liturgiche, specie in quelle feriali - a starsene chiusi in casa, protetti dalle mura fisiche e da quelle psicologiche, che i media contribuivano ad innalzare con il bombardamento delle loro informazioni, non di rado allarmistiche.

Il ragionamento si è affacciato in tutta la sua apparente chiarezza: se la Chiesa stessa ci ha autorizzato a starcene a casa, pregando con l’aiuto dell’offerta di momenti liturgici sul mezzo televisivo o sul web, a che pro rischiare, andando a mischiarci con l’assemblea comunque variegata dei frequentanti? Quante volte è stato necessario spiegare che la partecipazione mediatica non ha lo stesso valore e la stessa forza di coinvolgimento di quella in presenza, come ha ampiamente dimostrato in campo scolastico il vistoso fallimento della didattica a distanza.

Soprattutto, però, va richiamato con convinzione il fatto che nulla può sostituire l’accesso diretto alla comunione eucaristica e agli eventi sacramentali, celebrati facendosi insieme mendicanti e protagonisti diretti nell’invocazione e nell’accoglienza della misericordia divina e nell’esperienza del dono dall’alto, consegnato nel pane eucaristico, non a caso chiamato pane dei pellegrini per la sua capacità di alimentare e sostenere i mendicanti del cielo sulle vie della vita.

È emerso così il bisogno di una nuova evangelizzazione dell’incontro liturgico e di una catechesi a tappeto sulle modalità corrette per viverlo in pienezza: ed è qui che il cammino da fare si annuncia non facile. Tre convinzioni vanno richiamate per chi crede in Cristo: la prima è che se il Figlio di Dio si è fatto carne, è evidente che la mediazione corporea dell’incontro con il divino è stata voluta dallo stesso Dio vivente come la più vera, piena ed adatta alle creature fatte di spirito e carne, create a Sua immagine.

La seconda è che la salvezza donata dall’alto è stata offerta a un popolo, non solo a individui presi isolatamente: la storia di Israele e quella della Chiesa nel tempo ne sono l’immagine viva, che sempre nuovamente richiama i credenti alla comunione, alla partecipazione e al cammino solidale. Infine, è il nostro cuore che ha bisogno dell’Altro e degli altri: non solo perché, secondo le parole di Agostino “hai fatto il nostro cuore per Te ed esso è inquieto finché non riposi in Te” (Confessioni, 1,1), ma anche perché la coappartenenza originaria, in forza della quale l’altra è stata plasmata dalla stessa carne dell’altro, dice chiaramente che non siamo fatti per la solitudine, ma per la vita in relazione, al punto che anche l’eremita, solitario davanti al solo Sole divino, fa questa scelta per intercedere per gli altri e sostenere il mondo con la sua preghiera. Ferma restando ogni giusta prudenza e responsabilità, ritrovarsi, pregare insieme, vivere la solidarietà restano urgenze ineliminabili su cui ne va della stessa sopravvivenza di tutti e della dignità e bellezza della vita di ciascuno e del nostro essere e volerci umani secondo il progetto di Dio.

* Arcivescovo di Chieti-Vasto 

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