Addio De Mita, capì che il vento della storia stava cambiando

di Mauro Calise
Sabato 28 Maggio 2022, 00:00 - Ultimo agg. 07:00
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Ciriaco De Mita ha incarnato – al meglio – quel sistema politico che va sotto il nome di Prima repubblica. La scomparsa dell’uomo invita – obbliga – a una riflessione su quanto la politica di oggi sia diversa da quella lunga stagione. E quanto invece ne porti ancora i segni. De Mita storcerebbe il naso all’idea di comprimere in due cartelle di giornale un ragionamento così complesso. Ma i tempi della rete – ormai i tempi del nostro pensiero – non ci lasciano alternativa.

Pochi dubbi che fosse un grande leader, ma inestricabile dal partito. Questa resta la frattura incolmabile tra ieri e oggi. Le leadership del dopoguerra poggiavano sulle spalle dei giganti, i partiti che ne alimentavano, stabilizzavano e riproducevano il potere. E, di converso, la conquista di quei partiti era il traguardo di una lunga e spesso controversa carriera. In questa marcia De Mita porta una fortissima identità, fondendo tradizione e innovazione, radicamento territoriale e visione nazionale. Fu il rapporto privilegiato con uno dei padri fondatori della moderna Dc, Fiorentino Sullo, ad aprirgli le porte di Roma. Ma fu il certosino lavoro di coltivazione della base – simbolo e realtà della sua corrente – a consentirgli di trasformare l’osso della propria circoscrizione elettorale – Avellino, Benevento e Salerno - in un trampolino più potente e influente della capitale del Sud. 

La chiave del successo, fin dagli esordi, fu il gioco di squadra, la capacità di aggregazione intorno a un nucleo di interessi e motivazioni ideali. Ne fu emblematico il poker d’assi con cui portò in Parlamento un giovanissimo Clemente Mastella e due deputati di lungo corso, come Bianco e Gargani, anche grazie a uno stratagemma che aiutò i votanti a ricordarne i numeri di lista cui assegnare le preferenze: correva l’anno 1,9,7,6.

L’apice della sua carriera furono gli anni Ottanta, quando restò Segretario della Dc per un settennio, e riuscì addirittura a rompere il tabù e cumulare la carica di Presidente del Consiglio. Ma durò solo una manciata di mesi, e la bruciante sconfitta alle elezioni dell’83 - «che botta!» disse in diretta Tv – decretarono il fallimento del principale obiettivo, «demitizzare Craxi», offuscare il carisma del leader che aveva messo in discussione il monopolio della Dc su Palazzo Chigi.

Il craxismo avrebbe infatti resistito al repentino tramonto del segretario PSI, diventando il modello di governo della Seconda Repubblica: le leadership personali inaugurate da Berlusconi, sulle ceneri dei vecchi partiti travolti da Tangentopoli.

De Mita non condivise mai le nuove regole e i nuovi meccanismi del consenso: maggioritario e bipolarismo gli restarono culturalmente estranei, e ostili.

A livello centrale, con la clamorosa rottura con Prodi, e nelle città che di quel modello furono il laboratorio più virtuoso. Quando Bassolino divenne il Sindaco del rinascimento napoletano, De Mita sembrò ritirarsi sull’Aventino. Ma la passione per l’agone politico lo spinse rapidamente al gran rientro. E dopo la clamorosa sconfitta del centrosinistra alle regionali del ’95, cercò un riavvicinamento con l’Ulivo.

Da par suo, volle che a sancire la tregua fosse un dibattito, una battaglia delle idee, in una delle sue roccaforti storiche, Sant’Angelo dei Lombardi, dove la sindaca neo-eletta rappresentava un felice trait-d’union tra le radici democristiane e l’innovazione bassoliniana. A fare da cerimoniere fu Paolo Graldi, il direttore del Mattino che accompagnò quella transizione. Io, con la neutralità del politologo, offrivo il canovaccio intellettuale.

Ricordo il fitto colloquio in auto, quando mi chiese perché Antonio avesse rifiutato l’alleanza che i demitiani gli avevano offerto, privandosi di un candidato vincente. «Ma quel nome non ce l’hanno mai fatto!», gli risposi con timida fermezza. Tradì appena il suo disappunto. «Capisco», disse, chiudendosi in un pensieroso silenzio. Prendendo atto forse, per la prima volta, che il vento della Storia era cambiato. Che la leadership della Seconda repubblica bisognava giocarsela in proprio, fidandosi soltanto del rapporto diretto con i propri elettori.

Al tavolo della discussione, però, sarebbe nato un rapporto di profonda stima reciproca. Antonio e Ciriaco scoprirono di parlare la stessa lingua, l’antica lingua novecentesca della politica di partito. Ma per spiegare cosa significa, e cosa abbiamo perduto, non bastano settanta righe di sessanta battute. 

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