Il Pd e la resa dei conti ​tra valori e scelte

di Massimo Adinolfi
Venerdì 20 Gennaio 2023, 00:00
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Per essere aggiornati sul congresso del Pd: domani si riunisce l’Assemblea nazionale, e potrebbe essere l’occasione per decidere se approvare o non approvare il nuovissimo manifesto dei valori che nelle scorse settimane di alacre lavoro politico e intellettuale il comitato costituente, istituito all’uopo, ha redatto (credo). Non entro nel merito della arzigogolata discussione in corso in queste ore, se sia opportuno procedere all’approvazione prima dell’elezione del nuovo segretario o sia meglio farlo dopo.

A occhio, dovrebbe fare lo stesso: prima o dopo, che differenza potrebbe mai fare, rispetto ai valori che vi vengono affermati? C’è infatti qualcosa che non va, in un manifesto dei valori, se il suo contenuto dovesse davvero cambiare a seconda della scelta del segretario (o della segretaria). Vorrebbe dire infatti che al prossimo cambio di segretario (non lo auguriamo, al Pd, ma, nella sua quindicina di anni di vita, di segretari ne ha cambiati un bel po’) si potrebbe ricominciare daccapo, e riproporre di nuovo la questione dei valori a cui si ispira il partito. Una faccenda assai curiosa, che getta qualche dubbio su che cosa da quelle parti si intenda per valore. Senza mettere improprie maiuscole alla parola, né aspirare a scrivere carte e edificare monumenti che sfidano il tempo, credo che per valore si voglia ancora intendere qualcosa di universale, o che aspira a esser tale, qualcosa che non muta a seconda delle stagioni, e a cui si riferisce una comunità politica, non semplicemente una ben più mutevole linea politica.

Però il mondo è cambiato, si dice, e quel che valeva all’atto di fondazione del Pd non vale più oggi, in una fase che per questo si è detta costituente (la parola “rifondazione” è già stata spesa, e non pareva evidentemente un buon viatico). Ora, il mondo è cambiato certissimamente: non fa che cambiare. Era parecchio cambiato già nei primi anni Duemila, e difatti quel Pd provava a non fare altro che questo: collocarsi in un mondo cambiato, fuori dal Novecento, dentro una cornice definita essenzialmente dall’ancoraggio europeo del nostro Paese. Con tutto ciò che quell’ancoraggio significa tuttora in termini di diritti e libertà, di margini di politica economica e di standard ambientali e sociali. Tutto quello che è successo dopo – il crollo delle Torri gemelle come la crisi finanziaria, l’ascesa e la caduta di Trump e la pandemia, Next Generation Eu e la guerra in Ucraina – non sembra, almeno finora, aver cambiato la necessità di un saldo riferimento storico e politico all’Europa.

Il che, naturalmente, non vuol dire che non vi siano limiti e insufficienze nella costruzione europea, e che non sia possibile intendere in modo diverso quel vincolo. Ma questi elementi si collocano eventualmente sul piano della linea politica: chi, nel centrosinistra, è in cerca di valori, in Europa, nei suoi trattati istitutivi, li trova tutti da un bel pezzo.

A meno che non voglia “cambiare il modello di sviluppo”, come ripete Elly Schlein, con una frequenza, purtroppo, inversamente proporzionale alla chiarezza dell’espressione. Perché cambiare il modello di sviluppo, se le parole non sono spese a caso, non dovrebbe significare solo cose del tipo: maggiore attenzione a certe fasce sociali, maggiore rispetto dell’ambiente, più soldi alla sanità o alla scuola pubblica. Tutte queste cose stanno infatti dentro il medesimo modello di sviluppo in cui, bene o male, siamo ora, ed è ridicolo sostenere che il modello di sviluppo cambia se si introduce il salario minimo o si irrobustisce il bonus fotovoltaico. Qualcosa cambia, certamente, perché nulla è privo di significato, ma per cambiare un modello di sviluppo non dico che devi espropriare i mezzi di produzione o imporre la dittatura del proletariato, come si diceva una volta, ma devi perlomeno coltivare un’intenzione (e una forza) autenticamente “disruptive”, come invece si dice oggi.

Devi, per esempio, mollare l’ancoraggio europeo. O almeno fingere di volerlo fare. Non è un caso che le forze populiste, di destra o di sinistra, hanno preso Bruxelles a bersaglio, e tutto quello che significa, in termini sia politici che simbolici (e, in fin dei conti, più simbolici che politici). Ma può il Pd prendere questa via, essendo stato il principale interprete, in Italia, dell’ortodossia europea? Ne dubito fortemente. Nel caso, le parole di Elly Schlein avrebbero un senso, e un senso avrebbe pure un nuovo manifesto dei valori. Altrimenti, se la sinistra intende battere un colpo - perché ha margini per farlo -, ma dentro il quadro dato e il mondo qual è, allora quelle parole, che pure manifestano un’ansia di radicalità forse in sintonia con certe sensibilità presenti fra le nuove generazioni, ben lungi dal rilanciare l’azione del Pd rischiano di perpetuare quel “vorrei, ma non posso”, che ha di fatto accompagnato l’intera parabola del riformismo democratico. Debole non per un insufficiente quadro valoriale, mi pare, ma per l’insufficiente raccordo fra i valori e le scelte politiche di cui si è assunto, evidentemente a malincuore, la responsabilità.

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