Le scomuniche del corno e la Napoli vera

di Anna Trieste
Lunedì 14 Agosto 2017, 00:00
3 Minuti di Lettura
Il dibattito che in questi giorni sta tormentando l’élite napoletana, tenendola lontana da temi più tipicamente estivi come l’abbronzatura integrale o a strisce e la potatura all’inglese o alla francese del giardino della casa a Ischia, nasce dalla decisione del Comune di Napoli di installare, per il prossimo Natale, un corno gigante sul lungomare.

Si tratta di replicare l’esperimento già fatto l’anno scorso, quando sul seafront più liberato del mondo venne piazzata una copia quasi identica del campanile della chiesa del Carmine ma nella sua versione nuova, quella avvolta dalle impalcature per il restauro, solo che al posto dei ponteggi teneva le “lucelle” di Natale e almeno lui, al calar della sera, si illuminava.

Ora, a prescindere dall’opinione estetica che ognuno può legittimamente avere sul manufatto, che esattamente come l’albero dell’anno scorso avrà il compito di animare le serate dicembrine dei napoletani creando selfie, sorrisi, felicità e, si spera, posti di lavoro, la verità è che come ogni oggetto fallico di grandi dimensioni, più che il “cuorno” gigante, a creare zizzania è l’atavica lotta tutta ideologica imperante da anni nell’intellighenzia napoletana tra chi Napoli la vuole cambiare e chi no.

Non è una cosa tanto originale, eh; già Massimo Troisi e Lello Arena la misero in scena, in “No grazie il caffè mi rende nervoso”, dove proprio in una lettera al Mattino veniva formalizzata da parte di “Funiculì Funiculà” la minaccia di morte nei confronti di chiunque si fosse azzardato a partecipare al primo Festival della Nuova Napoli. E le fazioni in campo oggi sono sostanzialmente le stesse di trentacinque anni fa: quelli che vorrebbero una Napoli più moderna, elegante e europea, e quelli cui invece Napoli va benissimo così se solo se si potessero risolvere quelle piccole sbavature dei trasporti che non trasportano e delle telecamere di sorveglianza che non sorvegliano quando si spara per la strada.

I primi, in preda alla stessa furia iconoclasta dei calvinisti, bollando il tutto come ignoranza, folklore e oleografia vorrebbero abolire tutto ciò che ha a che fare con la tradizione popolare e dunque anche pizze, mandolini, babà e sangennari, salvo poi tenere ben cucito nella cravatta di Marinella un “curniciello” di vero corallo perché essendo dei veri intellettuali sanno benissimo che come diceva Eduardo «Essere superstiziosi è da ignoranti ma non crederci porta male».

I secondi, affezionati anche per ragioni personali e di necessità economico/professionale a quei simboli forse infantili ma pur sempre identitari, sono pronti a combattere per loro come i sanfedisti con l’immagine di san Gennaro azzeccata in fronte nella rivoluzione del ‘99 e rifiutano qualsiasi festa pubblica nelle piazze napoletane che non abbia in scaletta almeno una tammurriata e due tarantelle.
In mezzo, anzi tutt’intorno a quella lingua di terra sul mare che ormai è diventata una specie di Gaza tra illuministi e oscurantisti, c’è la Napoli vera.

E i napoletani. Che sostanzialmente del dibattito se ne fottono, tanto per andare sul lungomare e poter vedere questo “cuorno” gigante, se tutto va bene si dovranno organizzare logisticamente già da mo’, tra treni, metropolitane, bus e parcheggi milionari.

E che anzi, se proprio le élite acculturate della città non riescono a mettersi d’accordo sulla giustezza e l’opportunità del mega “cuorno”, quasi quasi stanno maturando un pensiero: «Ma se proprio questo cuorno non vi piace e non sapete cosa farvene ma perché non lo facciamo piezz’ piezz’ e ce lo date un poco a noi in periferia? Così magari può essere che quest’anno pure noi a Natale vediamo qualche luce». E gli vogliamo dare torto?
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA