Se la città è costretta ​a rinunciare al suo «corpo»

di Vittorio Del Tufo
Giovedì 12 Marzo 2020, 00:00 - Ultimo agg. 11:45
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«La città fu costretta allora ad abbassare gli occhi, e gli occhi si guardarono le mani ferme in grembo, ferme e malate come per malattia e malattia non era...». Nel libro Malacqua, Nicola Pugliese immaginava il tempo sospeso della città stremata non solo da quattro giorni di pioggia ininterrotta, ma anche dal moltiplicarsi di eventi inusitati, presagi e neri ammonimenti. Ci sembra, oggi, di vivere quello stesso tempo sospeso. E di inseguire, anche noi, «grigi pensieri fumiganti ad inseguire il mare» attraverso il vetro di una finestra, perché dobbiamo restare chiusi in casa per evitare che il contagio dilaghi.

La diffusione del virus mette alla prova il nostro saper stare al mondo. Il nostro modo di stare al mondo. Impone di accettare regole fino a ieri impensabili. Di ripensare, per esempio, il nostro rapporto con il corpo: il nostro e quello degli altri. I napoletani hanno sempre avuto un rapporto molto stretto con la dimensione del corpo. Che si tratti del corpo feticcio di Maradona, venerato quasi come una divinità, un dio pagano, diventato tutt’uno con il “corpo” della città. O che si tratti del corpo mistico di San Gennaro, venerato attraverso i suoi grumi, ai quali da secoli attribuiamo una funzione taumaturgica e salvifica: grumi come proiezione, appunto, del corpo mistico del nostro santo, dal quale ci aspettiamo una protezione eterna, e a tal punto riteniamo che ci sia dovuta, questa protezione, che ancora in queste ore il cardinale Sepe ha affidato la città alle sue cure, al suo sangue prodigioso.

Questo tempo sospeso, questa Malacqua subdola, invisibile, ci impone di fare tutti un passo indietro, e di guardarci le mani ferme in grembo. Come singoli cittadini, rintanati nel guscio protettivo delle nostre famiglie, il nostro bene-rifugio, ma anche come collettività adusa a convivere con una socialità spesso esagerata, a volte canagliesca e promiscua di umori, o esacerbata dalle tensioni sociali. Però non rinunceremmo mai alla socialità che è un nostro tratto distintivo, come la corporeità. Oggi che siamo costretti a farlo, ci sentiamo confusi, increduli, infine rassegnati: come comparse di un film di De Sica, cittadini su cui irrompe una voce grave e altisonante che sembra provenire dall’alto dei cieli per annunciare che alle ore 18 precise inizierà il “Giudizio Universale”.

Le cronache della quarantena restituiscono l’immagine di una città che tiene a distanza, con le persone, anche gli stereotipi. Anche l’ironia deve fare un passo indietro, o restare confinata in una dimensione puramente virtuale, simbolica, esorcizzante. Non c’è più spazio per la Napoli di Bellavista, la città indolente e fatalista che ritiene che nulla, in fondo, le possa capitare e nuocere, perché le è capitato già tutto: alluvioni, terremoti, epidemie.

Per i giovani che fino a domenica scorsa affollavano i locali della movida, incuranti del rischio, lo sbigottimento terminerà. Ne usciranno - crediamo - più forti, più responsabili. E con una consapevolezza in più: la pretesa di controllare tutto è vana, tracotante. Il nucleo della dignità umana consiste nel tipo di reazione di cui si è di volta in volta capaci. A diciotto anni come a settanta.

Ci sarà un prima e un dopo il coronavirus. Per molti ragazzi - spesso definiti come una generazione di “sdraiati” - quello che è accaduto, quello che accade in questi giorni, è la prima esperienza di vita la cui coscienza non si appannerà nei mesi e negli anni a venire, che torneranno a essere frenetici come quelli dei nostri giorni normali. Saranno un incubo da tramandare, da raccontare alle generazioni future. Nella memoria dei napoletani, sia in quella diretta che in quella ancestrale, sono rimaste le tracce di antiche paure, non solo le ferite ancora vive del colera del 1973, ma anche le paure più lontane che continuano a scorrere sotto traccia nelle nostre vene.

Come la grande peste che scoppiò a Napoli nove anni dopo la rivolta di Masaniello. Era il 1656 e prima di arrivare a Napoli, la morte nera era passata da Valencia, attraverso un bastimento carico di cuoio e altri pellami provenienti da Algeri. Il morbo si diffuse dal Lavinaio, a ridosso di piazza Mercato, dove abitava la famiglia di uno dei soldati che erano sbarcati in città a bordo della nave spagnola. E Napoli, il giardino d’Europa, si trasformò presto in un teatro degli orrori.

Nel tempo sospeso del coronavirus i napoletani, che custodiscono la memoria ancestrale di quei lontani avvenimenti, hanno capito che c’è un tempo per socializzare e un tempo per osservare le regole, con disciplina ferrea. Hanno scoperto anche che dietro l’incantesimo, spesso illusorio, della globalizzazione continua ad affacciarsi l’irrazionale, a riemergere il primitivo. Facciamo buon uso, se ci riusciamo, di questa consapevolezza. Perché una volta usciti dal tunnel, potremo rituffarci nella modernità più forti di prima. Come singoli e come comunità di cittadini.


 
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