Noi e i medici, un rapporto ​da ricostruire

di Antonio Menna
Giovedì 26 Marzo 2020, 00:00
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Oggi sono gli angeli con il camice, quelli che ci salvano la vita sacrificando a volte la loro. Ma ieri prendevano botte, pugni e minacce. È cambiato qualcosa nel rapporto tra i napoletani e il personale sanitario, con l’esplosione della pandemia da Coronavirus? Lo sguardo sulla trincea della battaglia al nemico invisibile sembra essersi riempito di ammirazione e gratitudine. Una casalinga di Ponticelli strappa le lenzuola del suo corredo per cucire in casa le mascherine per i medici dell’Ospedale del mare. Le signore dei Quartieri friggono zeppole di San Giuseppe e le mandano in corsia. I tassisti si offrono di portare al lavoro gratuitamente i medici ospedalieri. Striscioni con slogan di incoraggiamento al professor Ascierto e al suo team del Pascale, impegnati nella sperimentazione di un farmaco, compaiono su alcuni muri dell’area metropolitana. Dieci giorni fa, quando cominciarono i flash mob sonori dai balconi, uno di questi, alle dodici in punto, fu dedicato a medici e infermieri: applausi dai balconi del Vomero, dei Colli aminei – per farli arrivare alle finestre degli ospedali collinari – e dal resto della città.

Eppure non è passato molto da quando il personale sanitario era oggetto di insulti e aggressioni con devastazione dei reparti. Il caso limite ed estremo del raid al Vecchio pellegrini dello scorso primo marzo (sembra un secolo fa), dopo l’uccisione durante una rapina del quindicenne Ugo a opera di un carabiniere, è stato solo l’ultimo di una lista interminabile, prima che si entrasse nel vivo dell’emergenza. Un petardo contro un’ambulanza il primo gennaio, il sequestro di un mezzo di soccorso, il giorno dopo, da parte di un gruppo di minori per favorire l’aiuto a un loro amico con una distorsione. E dopo 24 ore l’attacco di una dottoressa da parte di un paziente psichiatrico. 108 aggressioni denunciate dal personale sanitario a Napoli nel 2019; poco meno nel 2018. Assalti ai reparti, alle ambulanze, minacce ai medici, nervi tesi, sfiducia, violenza. 
Nelle corsie, altro che doni e gratitudine, volavano insulti. E si invocavano non dispositivi di protezione individuale ma telecamere di videosorveglianza e picchetti della polizia.

«Una vera carneficina silenziosa», la definì il presidente nazionale dell’Ordine dei medici, Filippo Anelli. «Un terrore ci pervade ogni volta che entriamo in servizio», disse Manuel Ruggiero dell’associazione Nessuno tocchi Ippocrate. Tutta quella rabbia che fine ha fatto? È cambiato chiaramente il clima. Il virus ha insinuato in tutti il terrore di una malattia improvvisa dall’esito incerto e dalla prospettiva dolorosa. Il camice, fosse anche solo quello del medico di base, primo filtro dopo i sintomi iniziali, diventa l’approdo della salvezza, così come è la scienza, la ricerca, altri camici, quelli dei laboratori, che possono restituirci la libertà con il farmaco giusto o un vaccino. Ma se è vero, come lo è, che la sequenza di micidiali aggressioni conteneva un dato culturale, una convinzione di fondo, allora c’è il rischio che il pregiudizio torni a galla, e con esso la violenza.

L’idea diffusa – diciamoci la verità - era che nella sanità pubblica bisognava farsi spazio con la forza e con la voce grossa. Se in quella privata, la differenza tra la vita e la morte, la faceva il denaro, in quella pubblica – secondo alcuni - la faceva la tua capacità di farti sentire, che si modulava in due maniere: conosci qualcuno? Oppure urlare, minacciare, aggredire. Un pensiero laterale e fisso, un pregiudizio radicato: nella sanità politicizzata, se hai un amico hai anche il trattamento giusto. Altrimenti finisci in fondo alla lista. La vita e la morte legati alla capacità di attivare meccanismi personali. E chi non ce l’aveva, questa capacità, questo rango, si faceva giustizia da sé. Urla e minacce per ottenere qualcosa. Aggressioni e botte se non l’avevi. 

C’è da augurarsi che la brutta avventura del virus riesca oggi davvero a cancellare questa idea, e a ricucire il rapporto tra alcuni settori della popolazione e la sanità pubblica, o forse con tutto il potere pubblico. Riscrivere l’idea di una sanità universale e giusta, che riconosce cure a tutti, senza distinzioni sociali e senza corsie preferenziali, senza trattamenti di favore, con medici e personale sanitario che hanno bisogno di lavorare con tranquillità per dare il meglio di sé. C’è da sperare che nel dramma la fiducia si sia davvero ricomposta. Perché se così non fosse, se quell’attuale apparisse solo come una tregua da stordimento; se nel collo dell’imbuto della prossima e annunciata crisi del sistema sanitario regionale, dovesse riesplodere anche la rabbia violenta che abbiamo visto di recente, avverrebbe una saldatura drammatica tra paura e rivolta, tra emergenza sanitaria ed emergenza sociale, che potrebbe essere la vera polveriera.
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