Se il virus fa scoprire ​il dramma degli ospizi

di Antonio Mattone
Martedì 7 Aprile 2020, 00:00
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È una strage silenziosa quella degli anziani che la pandemia da coronavirus sta portando via. Una generazione che rischia di essere spazzata nel giro di poche settimane. Che vuol dire memoria, cultura, affetti, testimoni di un’epoca che non avremo più. Un vecchio che muore è una biblioteca che brucia, recita un proverbio africano. 

Nelle case di riposo e nelle Rsa del Nord stiamo assistendo ad una vera e propria ecatombe, si stima che nelle strutture della Lombardia sia deceduto un ospite su dieci. Ma anche nel Meridione la situazione comincia a farsi preoccupante. In Campania si riscontrano oltre duecentocinquanta casi di contagio. Da Ariano Irpino a Sala Consilina, da Benevento fino alla vicenda di Fuorigrotta. Si muore senza conforto, senza poter vedere nessuno. Se questo è vero per tutti coloro che sono colpiti dal covid-19, nei cronicari lo è ancora di più.

La condizione di isolamento di chi è avanti negli anni risente della cultura dello scarto, come ha detto più volte papa Francesco. Le frasi che abbiamo sentito durante la prima fase dell’epidemia sono una spia di questa mentalità. “Sono gli anziani a morire”, si diceva per cercare rassicurazioni. Oppure si paventava una inevitabile scelta tra giovani e vecchi su chi dovesse essere curato, visti i pochi posti disponibili nelle terapie intensive. Ragionamenti che nascono per esorcizzare la paura, e che contengono una forma di disprezzo verso la debolezza.

In questi anni abbiamo assistito alla dissoluzione delle reti sociali e relazionali, all’arretramento del welfare per la terza età.  Molti anziani sono finiti in ospizi spersonalizzanti e squallidi che talvolta si sono trasformati in veri e propri luoghi dell’orrore, dove veniva esercitata una violenza gratuita verso vecchi inermi e malati. Come ha recentemente affermato il cardinale di Bologna Zuppi, troppo poco negli anni passati abbiamo detto ai nostri vecchi “restate a casa”, cercando o inventando soluzioni che permettessero la permanenza nei luoghi dove hanno sempre vissuto. Nell’hinterland napoletano abbiamo visto nascere quelle villette dove si è consumato un esodo doloroso e silenzioso, uno sradicamento dalle proprie cose e dai ricordi di una vita. Più recentemente il fenomeno si è trasferito anche in città, soprattutto al Vomero, il quartiere di Napoli dove sono concentrati gli over 65. Quello che è avvenuto all’interno de “La casa di Mela” a Fuorigrotta è un chiaro segno che, indipendentemente dalle responsabilità che saranno accertate, non sono questi i luoghi migliori per finire gli anni della propria vita. Anche gli anziani che vivono a casa propria sono spesso relegati in una condizione di isolamento, soprattutto quando sono malati, poveri e senza nessuno che li aiuti.  L’assistenza domiciliare a Napoli si è ridotta e frammentata, senza omogeneità di interventi. Lo abbiamo visto nei primi giorni della pandemia. Ogni cooperativa aveva una sua condotta, senza modalità operative comuni. Ad oggi, manca un sistema di monitoraggio attivo che possa prevenire l’istituzionalizzazione e l’ospedalizzazione prima che la situazione precipiti. Inoltre andrebbero sviluppate quelle reti di protezione che permetterebbero agli anziani di restare nella propria abitazione. La storia della signora di 109 anni della Sanità, anni raccontata su Il Mattino da Maria Pirro è esemplare: a casa propria si vive meglio e di più.  Anche l’assistenza sanitaria è farraginosa, con un livello di burocratizzazione che rende tutto difficile. Solo per fare un esempio, se una anziana ha necessità di riabilitarsi deve andare prima dal medico curante, poi due volte nel distretto sanitario e infine nel centro di riabilitazione, se ha la fortuna di trovarne uno che ha disponibilità. Per chi non ha parenti diventa un’impresa davvero ardua.

E poi non è possibile che i fondi destinati alla Campania per la sanità siano in proporzione inferiori a quelli erogati agli altri territori solo perché siamo la regione più giovane d’Italia. Bisognerà alzare la voce per pretendere che si garantisca l’uniformità delle prestazioni e delle cure su tutto il territorio nazionale.
Dio creò la famiglia, poi l’uomo inventò le case di riposo, diceva don Oreste Benzi. Una signora di novant’anni, che vive in una residenza per anziani del quartiere collinare, dopo settimane di isolamento ha ricevuto una telefonata di una amica, e le ha detto: “finalmente sento una voce!”.

Una volta finita l’emergenza l’assistenza socio-assistenziale e quella sanitaria andranno ripensate. Occorre creare le condizioni per vivere in modo dignitoso gli ultimi anni della vita.  Bisognerà riprendere il dialogo con la generazione di vecchi che abbiamo relegato nel dimenticatoio. Ricordando che ridare voce e speranza a questi anziani renderà più umano ciascuno di noi.


 
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