Coronavirus, chi spende di più e chi meno

di ​Sergio Beraldo
Venerdì 27 Marzo 2020, 23:00
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Il tambureggiante assillo di questi giorni riguarda le modalità con cui potranno essere adeguatamente fronteggiate le conseguenze economiche della pandemia causata dal Covid-19. Un assillo che rimanda alla necessità di definire e quantificare, preventivamente, l’ammontare di quelle risorse che devono essere racimolate al fine di evitare che il sistema degli scambi collassi.

Per scongiurare che la quantificazione delle risorse necessarie ad affrontare l’emergenza sia caratterizzata dalla precarietà tipica del vaticinio, esercitato da stregoni (apprendisti) o ciarlatani (navigati), è necessario valutare con attenzione alcuni elementi. Innanzitutto l’ampiezza dell’economia di riferimento. In secondo luogo l’entità dello shock che essa presumibilmente subirà, la qual cosa dipende non solo dal rallentamento endogeno dell’attività produttiva, ma anche dall’effetto indotto sulla stessa dalla flessione degli scambi internazionali. Vale a dire che per valutare l’entità dello scossa subita da un certo Paese occorre anche considerare la sua collocazione nell’ambito della divisione internazionale del lavoro, oltre che l’evoluzione del ciclo economico nelle aree per esso maggiormente rilevanti. 

L’impressione che si ricava dalle notizie che si accumulano sulla dimensione dei piani di contrasto alle nefaste conseguenze della pandemia, è che lo sventolio di cifre sulle risorse, messe a disposizione dai governi, svolga innanzitutto l’utile funzione di rassicurare gli operatori – non solo i mercati finanziari e le aziende private, ma anche i lavoratori pubblici e i pensionati – che tutto ciò che necessita d’esser fatto sarà fatto. È infatti presumibile che l’iniezione di risorse avverrà secondo una logica on-demand. Una logica che traspone, per chi se lo può permettere, ovvero Stati Uniti e Germania innanzitutto, ma anche Gran Bretagna, la logica del «whatever it takes» di Draghi sul piano delle politiche di bilancio.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, il Congresso ha appena approvato un piano da 2000 miliardi di dollari, un triplo del valore di quanto stanziato nel 2008 al deflagrare della crisi dei mutui sub-prime. Un piano che corrisponde a circa il dieci per cento del prodotto interno lordo statunitense, approvato peraltro all’unanimità. Circostanza quanto mai ricca di significato anche per gli Europei, alcuni dei quali oppongono a richieste che appaiono legittime nelle circostanze correnti, cavilli francamente estenuanti, che si rivelano fragili foglie di fico su una visione d’Europa che non può reggere l’urto attuale. 

La Germania sta predisponendo un piano che pone dai 550 ai 1000 miliardi di euro a disposizione del sistema economico; fondi in larga parte volti a proteggere il sistema produttivo, anche assicurando la liquidità necessaria. Ci si muove pertanto in un intervallo che va dal 16 al 30 per cento del PIL tedesco. La qual cosa non significa, come detto, che tutte queste risorse saranno effettivamente impiegate. Significa però che potrebbero esserlo, all’occorrenza. 

Ora, è davvero curioso che mentre i tedeschi si preparano ad affrontare la crisi predisponendo un bazooka in grado di sparare, potenzialmente, 1000 miliardi di euro, allo stesso tempo oppongano la maggior resistenza ad accordare risorse incondizionate ai Paesi non in grado di agire efficacemente da soli. 

Anche la Francia, che pure ha predisposto un piano da 300 miliardi di euro, una cifra superiore al 10 per cento del proprio PIL (12,5%), si trova a dover richiedere un intervento massiccio dell’Unione. Intervento anche invocato dall’Italia, il cui prodotto interno lordo presumibilmente crollerà del 6,5 per cento nel corso del 2020, stando almeno alla stima prudenziale di Prometeia. Si tratta appunto di una stima prudenziale. In uno scenario ben peggiore la caduta del PIL potrebbe arrivare fino a dieci punti percentuali. Supponendo che ci si metta una pezza a compensazione, occorreranno tra i 116 e i 180 miliardi di euro circa per arginare la crisi. 

Le risorse stanziate fino ad ora con il decreto cura Italia (25 miliardi) maggiorate di quelle promesse entro aprile, ammonterebbero a poco più di 50 miliardi (2,7 per cento del PIL). Se pure il governo Conte avesse accesso alle linee di credito rafforzate (che prevedono la condizionalità) del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), potrebbe racimolare risorse per non più di 2 punti di PIL ulteriori (circa 36 miliardi). 

Si è dunque ben lontani dall’aver accumulato le risorse necessarie a garantire una risposta soddisfacente; pari almeno al dieci per cento del PIL secondo le valutazioni espresse dai governi delle economie più avanzate. Una risposta che salvaguardi innanzitutto il nostro sistema produttivo. 

A questo punto la minaccia di fare da soli potrebbe anche essere avvertita in Europa come credibile. E funzionare. L’ultima chiamata prima di un esito disastroso. Anche per l’Italia. 
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