Il manifesto dei credenti ​per una rete di solidarietà

di Angelo Scelzo
Domenica 5 Aprile 2020, 00:00
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Nella terra dei tanti mali e delle troppe ingiustizie, più volte alla chiesa campana è accaduto di dover ricorrere “al grido biblico del “Non possiamo tacere”. È il grido che si leva oggi, con maggior forza, ai tempi del coronavirus, la pandemia della globalizzazione che, s’è visto, non fa distinzione di territori, e che, proprio per questo, attraversa in senso trasversale tutta la chiesa, sull’onda della straordinaria preghiera e della benedizione Urbi et orbi di Papa Francesco, nel silenzio e nella solitudine di piazza San Pietro. Un grido che è sempre invocazione e preghiera, ma che è spesso chiamato a farsi denuncia. Con il titolo “Lettera nella tempesta”, un gruppo di teologi, biblisti, medici, sociologi, oltre a due vescovi - l’emerito di Caserta Raffaele Nogaro e l’ordinario della diocesi di Teggiano-Policastro Antonio De Luca - ha elaborato un documento che guarda molto al dopo dell’epidemia e cerca di dare un senso a “quel niente sarà più come prima” che è l’espressione ricorrente di questi giorni così irreali e, per ora, sospesi sul filo dell’emergenza. 

La “lettera “ha una radice napoletana. Non solo per i firmatari (finora oltre 800, in prevalenza padri gesuiti dei diversi centri cittadini, e biblisti come Luca Mazzinghi, storici come Sergio Tanzarella, il chirurgo Alfonso Barbarisi, il sociologo Maurizio Ambrosini, Raniero La Valle, l’antropologo Valerio Petrarca e suor Rita Giarretta) ma essenzialmente perché s’avverte il legame con quella teologia della vita, che fu al centro del convegno sulla Veritatis Gaudium che papa Francesco concluse alla Facoltà teologica dell’Italia meridionale sezione di Posillipo. 

La Facoltà in quanto tale, oltre all’adesione a titolo personale del vice preside e decano, padre Pino Di Luccio, e di altri docenti non ha alcun titolo diretto nell’iniziativa, nella quale non ha ruolo neppure la chiesa diocesana. Ma l’indicazione del Papa per una teologia chiamata a confrontarsi più da vicino con i problemi concreti dell’umanità, era certamente anche la traccia per estendere il rapporto su campi sempre più vasti. Nessuno poteva immaginare che il terreno di applicazione si manifestasse in quello di una sfida così epocale, come la pandemia del coronavirus. A quel punto sempre Francesco, con quella sua straordinaria preghiera e il suo messaggio ha fatto il resto. Il discorso del Papa a San Pietro è alla radice stessa di tutta la lettera: “Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato”. È una verità dolorosa, ma i cattolici non possono aver paura di guardare in faccia quel che accade. E la “Lettera” scoperchia la realtà, la espone alla vergogna della sua nudità e parla di “economizzazione della vita quotidiana”, di sistema sanitario impoverito anno dopo anno, incapace di assicurare a tutti le necessarie tutele, privatizzato come se anche la salute non fosse un diritto sacrosanto, piegato alle logiche del profitto, reso non omogeneo dalla regionalizzazione che lede il valore dello Stato unico. La stessa vita non ha più tutele assolute, ma ha un prezzo. Se già in questo è evidente come siano accantonati umanesimo e fraternità, valori per tutti, ma ancora di più per i credenti, lo è ancora di più quando ci si confronta con i dati impietosi relativi “all’accumulo di armamenti e sistemi di arma”. 

È un amaro paradosso quello evidenziato dalla “Lettera”: “Mentre la spesa militare ha continuato a crescere in modo esponenziale, il servizio sanitario nazionale era sottoposto a continui tagli di bilancio. Negli ultimi 9 anni, alla sanità sono state sottratte risorse pari a 37 miliardi di euro; ciò ha determinato la perdita di 43.000 posti di lavoro, la chiusura di ospedali, di reparti e la riduzione di posti letto”. Certo l’epidemia è arrivata come un fulmine inatteso, ma il Paese non si è fatto trovare pronto ad affrontare, nelle migliori condizioni, il dilagare del virus. La voce dei firmatari sembra quasi richiamare quella chiara, potente, di don Peppino Diana, il sacerdote di Casal di Principe ucciso dalla camorra il 19 marzo 1994. Nel 1991 aveva scritto una lettera alla sua gente: “Per amore del mio popolo non tacerò”. E nella “Lettera” non si tace quando si denuncia “la crisi in atto che sta colpendo duramente la vita sociale, mettendone seriamente a rischio la tenuta”. Occorre assumere misure urgenti sia per chi vive nella povertà più grave, circa sessantamila uomini e donne senza fissa dimora sia per le famiglie vulnerabili che “scivolano ai margini”, ma anche per chi è più garantito e sperimenta la precarietà. Il documento non tace nemmeno quando chiede ai governi di assumere decisioni fondate su un nuovo e autentico umanesimo e sui diritti da riconoscere davvero a tutti. Ma non tace anche quando chiede alla Chiesa di fare la sua parte. E accanto all’impegno già forte, la Lettera prospetta, in senso dialogico, ancora altri interventi e altre forme di aiuto. Non si tratta solo di indicare le vie, ma di cercare i modi per realizzare una rete di solidarietà che venga incontro concretamente ai bisogni dei più fragili e indifesi. È in tal senso che questa iniziativa di credenti può rapportarsi al lavoro in tutta la diocesi dove una forte mobilitazione è già in atto. 

 
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