Coronavirus, l'agenda nera: così errori, ritardi e paure hanno piegato l'Italia

Coronavirus, l'agenda nera: così errori, ritardi e paure hanno piegato l'Italia
di Lucilla Vazza
Domenica 12 Aprile 2020, 00:00 - Ultimo agg. 13 Aprile, 09:40
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È ancora presto per fare i bilanci, ma i tre mesi del Covid-19 sono già un capitolo della storia d’Italia. Dalla primissima fase del «virus con gli occhi a mandorla» all’epopea dei tamponi, al più recente tormentone della fase 2 e delle riaperture, la lotta all’epidemia appare come un’estenuante marcia fatta di metri guadagnati, di rallentamenti e di buche in cui il Paese è caduto già tante volte, mentre il traguardo con la parola fine appare ancora lontano. Tre mesi che si possono sintetizzare così: a gennaio la Cina è il fulcro di tutto e Wuhan sembra un contagio lontano; a febbraio il mese del tempo perso, si continua a vivere normalmente, quando già si manifestano i contagi fuori dalla Cina, molto si poteva prevenire e gestire diversamente; a marzo la tragedia lombarda apre gli occhi a tutti e chiude il sipario sulle esitazioni, l’Italia si blinda in casa. Nel mentre è successo di tutto: eccesso di burocrazia, livelli di governo che non hanno comunicato, confusione nelle indicazioni alla popolazione e ai sanitari, contagi ospedalieri, mancanza di programmazione e ritardi. In poche settimane siamo passati dalla sventata sicumera di #Milanorestaaperta al lockdown nelle nostre case, dall’aperitivo al rito della conferenza stampa quotidiana della Protezione civile. 

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Gli italiani scoprono di non avere abbastanza strutture adatte ai malati in rianimazione, mancano i posti letto, mancano i respiratori. I numeri diventano ogni giorno più pesanti, i morti sfiorano il tetto dei mille al giorno. Le regioni rincorrono medici e infermieri: dopo anni di blocco delle assunzioni, i reparti sono al collasso, manca il personale e si corre ai ripari come si può con concorsi e un decreto Sanità che permette migliaia di assunzioni libero-professionali, che i sindacati auspicano possano diventare a tempo indeterminato. Dal rebus mascherine al dilemma del diritto al footing, anche la comunicazione è andata spesso in corto circuito col risultato di un immenso frullatore in cui sono finiti i pareri degli scienziati ridotti a materiale per la commedia più che indicatori sicuri per governare l’epidemia. Perfino le terapie, tutte ancora in fase sperimentale, sono vagliate nei talk show con tifoserie disposte a schierarsi. È vero che siamo in uno scenario del tutto inedito, ma troppe cose sono andate storte nelle prime settimane. All’11 aprile l’Italia piange 19.468 morti e per quanto ci sia negli ultimi giorni un calo dei numeri in generale, l’ordine è tenere duro, non illudersi di essere fuori pericolo, sarebbe un errore fatale. E non consola il “mal comune mezzo gaudio” della compagnia di altri Paesi, Usa e Regno Unito in testa, che hanno fatto peggio di noi, sprecando il vantaggio temporale di un contagio arrivato con qualche settimana di ritardo, mentre da noi già si contavano i morti. 

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Per capire i fatti, bisogna tornare a gennaio. Il primo elemento critico è stato la sottovalutazione del fenomeno: il virus sembrava un problema tutto cinese. Il 31 dicembre, le autorità sanitarie cinesi notificano «un focolaio di casi di polmonite ad eziologia non nota» nella città di Wuhan, che conta oltre 11 milioni di abitanti, ed è la capitale dell’Hubei, al centro della Cina. Il 9 gennaio, la prima vittima accertata. Il 10 gennaio la sequenza genomica del coronavirus viene comunicata all’Oms. Nel frattempo migliaia di ignari cittadini, anche europei come poi dimostrato, sono già partiti dall’Hubei, per festeggiare nel mondo o nelle città d’origine il capodanno cinese, che cade il 25 gennaio. Così parte il contagio globale. Solo il 21 gennaio la Cina ammette ufficialmente l’epidemia. Il 23 gennaio il governo impone il lockdown a Wuhan e in altre città dell’Hubei: il resto è storia. Da noi mentre si prende la prima misura concreta, il termoscanner per la temperatura corporea negli aeroporti, inizia il corto circuito comunicativo e il profluvio di circolari sui tamponi, prima si facevano a tutti, poi si decide di limitare ai soggetti sintomatici. Scienziati, virologi e infettivologi in testa, iniziano a comparire sulle cronache e a dividere con le loro prese di posizione: Roberto Burioni avvisa già l’8 gennaio che in Cina c’è un preoccupante virus che provoca una strana polmonite e rincara la dose nei giorni successivi sollecitando il ministro della Salute a non sottovalutare il problema. Il clima però è di rassicurazione. Il problema sanitario rimane sullo sfondo e il dibattito mediatico si focalizza sul “virus del razzismo”, se chiudere o no i voli, se mangiare o no nei ristoranti cinesi. E mentre tutto gira intorno all’involtino primavera, scopriremo poi che il virus è già entrato in Europa tramite la Germania e ha iniziato a circolare indisturbato. Il 29 gennaio viene individuata a Roma una coppia di turisti cinesi “febbricitanti” risultati poi positivi al Covid-19. La gestione dell’ospedale Spallanzani è perfetta, l’illusione è che tutto possa essere gestibile. Il 30 gennaio il presidente Conte precisa: «Lo Spallanzani è la Bibbia in questo settore. Non c’è nessun motivo di creare panico e allarme sociale», il giorno dopo il Consiglio dei ministri dispone la chiusura del traffico aereo con la Cina: «Siamo i primi a farlo - rivendica - Posso assicurarvi che in questo momento siamo in Italia nella linea di massimo rigore in funzione preventiva. Sono fiducioso che la situazione rimarrà confinata. La situazione è assolutamente sotto controllo». Fa eco il ministro della Salute, Roberto Speranza: «La situazione è seria ma non bisogna fare allarmismi». 
 

 

A febbraio con i primi contagi fuori dalla Cina, si alza il livello del dibattito, ma a nessuno viene in mente di allertare le Regioni per fare un controllo sui dispositivi di protezione, le attrezzature: in realtà nessuno ancora si aspetta l’epidemia. E mentre i cinesi in Italia autonomamente si mettono in quarantena, chiudendo le loro attività, da noi la convinzione scellerata è che possano esserci pochi casi importati e circoscritti. Tant’è che tutto scorre: la settimana della moda a Milano (anche se con limitazioni a buyer e stakeholder asiatici), lo sport, le partite di calcio, inclusa la “bomba biologica”, come l’ha definita il sindaco di Bergamo Gori, che è stata la partita di Champions League del 18 febbraio a San Siro per Atalanta-Valencia con oltre 40mila bergamaschi in trasferta e a festeggiare nei locali della provincia. Tutti in giro come se niente fosse al punto che l’Italia, invece che prepararsi e tutelarsi, invia, il 15 febbraio, in collaborazione con l’Onu, tonnellate di attrezzature sanitarie in Cina. Incluse le famigerate mascherine e i presìdi che poi sono mancati ai nostri operatori sanitari. Bisognerà aspettare il 21 febbraio con la diagnosi del paziente 1, Mattia da Codogno, per far cambiare il quadro e far scattare le misure più stringenti. È ormai chiaro che c’è un focolaio lombardo, la commissione tecnico-scientifica della protezione civile delimita la zona rossa a dieci paesi lombardi e uno in Veneto, Vo Euganeo. Restano fuori Nembro e Alzano Lombardo che poi si riveleranno cruciali per la diffusione del contagio. I numeri dei decessi iniziano a diventare pesanti. Le relazioni delle aziende sanitarie in queste settimane stanno facendo emergere le criticità e i ritardi, sono partite diverse inchieste giudiziarie. Febbraio è stato il mese cruciale del contagio, ogni giorno emergono le verità di chi ha lavorato e sta lavorando in prima linea. L’8 marzo, viene annunciato il decreto che annuncia la messa in quarantena del nord Italia. Questa limitazione fa scappare 20mila persone da Milano tra sabato e domenica in una grande fuga verso il sud. Si teme il peggio, ma i numeri successivamente danno torto agli allarmisti, chi rientra si mette in quarantena e rispetta le indicazioni di distanziamento sociale, altrimenti, come spiegano gli esperti, avremmo ben altri numeri di contagio nelle regioni meridionali.
 

A marzo le cronache si riempiono di morte. Dopo il dpcm che impone la chiusura di tutte le attività e il divieto di uscite e assembramenti, i reportage dei giornalisti dalla zona rossa della Lombardia, le immagini dei reparti di terapia intensiva al collasso, infine le bare trasportate dai camion militari aprono gli occhi agli italiani. È chiaro che questa è una tragedia e che è stato perso tempo prezioso per prepararsi al peggio. Il resto è cronaca di questi giorni, i decreti, le ordinanze, le autocertificazioni, le tabelle con i numeri. Infine lo scandalo delle residenze sanitarie assistenziali, le Rsa, come si chiamano oggi gli ospizi, dove troppo spesso il personale non è stato messo in condizioni di sicurezza e ha portato il contagio nelle strutture che ospitano pazienti fragili per definizione: gli anziani non autosufficienti. Il report dell’Istituto superiore di sanità sulle Rsa è impietoso, oltre un terzo dei pazienti è morto per Covid-19, su 3.859 residenti morti negli ultimi due mesi, 133 erano risultati positivi al Covid-19, 1.310 hanno avuto sintomi influenzali, cioè il 37,4% sul totale dei decessi. Cifre monstre in Lombardia dove c’è quasi un quinto delle Rsa in Italia e il tasso dei defunti per covid-19 è quasi il 7% oltre il doppio rispetto al 3,1% del resto d’Italia. 

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Il premier ha blindato l’Italia ancora fino al 3 maggio, ma già è pronta una task force di 17 esperti per affiancare il governo nel cronoprogramma delle riaperture e delle strategie per gestire la Fase 2 che oggi rischia di apparire come il miraggio nel deserto, apparentemente vicina ma inafferrabile.
 

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