Avrà pure ragione Aldo Cazzullo quando punta il dito contro la mediocrità del nostro ceto politico. Anche se, personalmente, faccio fatica a rimpiangere quello – che sarebbe stato migliore – della Repubblica di Quo vado, quando i magistrati saltavano per aria, il terrorismo – di destra e di sinistra – metteva a ferro e fuoco la penisola e la Cia non si sapeva se proteggeva l’Alleanza o i brigatisti che rapivano gli statisti.
Resta il fatto che qualcuno – oggi - al governo potrebbe fare meglio il suo lavoro, e potrebbero farlo meglio le regioni che, in questa fase delicatissima, mandano «segnali sbagliati» al Paese. Però, per essere equanimi, i segnali sbagliati provengono anche – e molto – da buona parte della stampa. I cui toni sono diventati, in queste ultime settimane, accesi e unilaterali. Soprattutto la stampa che pesa di più sull’opinione pubblica, quella televisiva e radiofonica.
Durante tutta la prima ondata, l’attenzione sulla disinformazione era focalizzata sulla rete, le fake news, i negazionisti. E il web resta un circuito caldissimo, e apertissimo a tutti i tipi di sortite, dal basso e anche dall’alto. Ma non va sottovalutato – anzi – il ruolo degli opinionisti d’assalto che oggi conducono i programmi audiovisivi di maggiore successo. Il fenomeno è tanto più preoccupante perché coinvolge – in una sorta di sdoppiamento della personalità alla Poe – anche illustrissimi nomi della migliore carta stampata. Ho fatto un balzo sulla poltrona, l’altra sera, vedendo il mio elzevirista preferito – la cui acutezza e raffinatezza di scrittura non ha niente da invidiare a La Rochefoucauld – trasformarsi in un Torquemada intemerato in sella al piccolo schermo. Da studioso di comunicazione, so bene che il media è il messaggio.
E, infatti, il problema non è il singolo comunicatore che sbaglia, o si abbaglia. Se li analizzate tutti insieme, vi accorgereste che la grande maggioranza ha imbroccato – come stile argomentativo – quello della requisitoria. Se vi va bene, vi può capitare un quasi-interrogatorio, col politico malcapitato di turno che ha tempo per un paio di monosillabi difensivi tra un j’accuse e l’altro. Il diritto di cronaca è sacro. Ci mancherebbe. Ma siamo sicuri che questi toni aiutino a dare una mano al paese, e ai politici che – per mediocri che siano – hanno il compito di provare a governarlo?
Il rischio è che sotto l’implacabile bombardamento del virus si perda di vista la drammatica complessità della sfida cui è sottoposto il regime democratico.
Non lo so. Studio da decenni l’evoluzione delle democrazie, e il principale tratto comune – e pervicace – è il rafforzamento delle leadership, sempre più personali. E solitarie. Sono quelle che non hanno paura quando i media alzano i toni. Perché loro li sanno alzare più forte. A salvarci, il più delle volte, arriva lo scivolone di rito. Ma non è un canovaccio obbligato. Altre volte il leader si consolida, e diventa difficile cacciarlo. Usa docet. Come Brasile ed India. E i paesi europei che ci stanno, con sorti ancora alterne, provando. Per un miracolo che non so spiegarmi, le elite parlamentari nostrane – in Italia, come in Germania, in Francia – stanno riuscendo a reggere botta a uno tsunami dalle proporzioni impensabili, imprevedibili e al momento – purtroppo – ancora incommensurabili. La mia impressione – voglio essere ottimista – è che possiamo farcela. Se provassimo ad abbassare i toni, forse sarebbe un po’ più semplice.