L'emergenza si supera ​stando uniti

di Alessandro Campi
Mercoledì 28 Ottobre 2020, 00:00
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Sull’Italia non soffia alcun vento di rivolta. Non ci sono moltitudini (un tempo chiamate masse) tumultuanti per le strade. 

Non c’è un intero popolo pronto all’insurrezione. E non parliamo poi della possibilità che da piccole e sparse esplosioni di rabbia nelle piazze possa scaturire una rivoluzione liberatrice. 

Anche se non mancano, al lavoro in qualche Dipartimento universitario a spese dello Stato, quelli convinti che grazie al Covid la resa dei conti ideologica col Capitalismo e col Potere stia per cominciare. Sta accadendo in realtà una cosa al tempo stesso facile da intendere e difficile da gestire. Da un lato, abbiamo la protesta legittima e largamente spontanea di appartenenti alle categorie che si ritengono quelle economicamente più colpite dalle ultime restrizioni imposte dal governo: vogliono soldi e agevolazioni in cambio dei sacrifici che debbono sopportare. Dall’altro, come sempre nei momenti di crisi economica e sociale, abbiamo la mobilitazione organizzata di frange radicali o marginali interessate, anche se per ragioni diverse, alla provocazione e al disordine: ultradestra fascistizzante, centri sociali, manovalanza criminale, ultras da stadio che spesso coincidono con l’estremismo politico rosso-bruno, anarco-insurrezionalisti, bande di spacciatori, professionisti della contestazione al sistema. Tutti lupi solitari eccitati dal miraggio della guerriglia urbana, saccheggiatori metropolitani ecc.

Sono due forme di protesta – l’una tendenzialmente pacifica e rivendicativa, l’altra fisiologicamente violenta e strumentale – che non vanno assolutamente confuse. E diversa, nei loro confronti, deve dunque essere la risposta dello Stato. Nel primo caso, l’ascolto delle ragioni e, ancora più importante, misure concrete di sostegno da adottare in tempi rapidi. Nel secondo caso, la vigilanza sul piano dell’intelligence, l’uso della forza pubblica e, quando necessario, la repressione a norma di legge, considerato anche il rischio che assalitori e sfasciavetrine a volto coperto vengano occultamente manovrati da potenze straniere interessate a gettare l’Italia definitivamente nel caos. A leggere certi volantini che in questi giorni chiamavano alla mobilitazione contro la “dittatura sanitaria” imposta dal governo l’impressione è che non siano stati confezionati in Italia. Una distinzione che deve essere fatta sul piano analitico e del commento. Ma che a maggior ragione deve essere tenuta ferma da chi, in questo momento, si oppone politicamente al governo e non ha alcun interesse a vedersi associato – esprimendo loro una qualche comprensione – ai rivoltosi che danno l’assalto a forze dell’ordine e cronisti e ai vandali che sfasciano e derubano i negozi. Salvini, in particolare, ha già pagato un prezzo altissimo per le sue antiche ambiguità in politica estera.

Davvero non gli conviene alimentarne altre sul fronte interno. Viviamo d’altronde una fase delicata e unica, destinata a complicarsi nei prossimi mesi, che non consente ai partiti di agire come nei tempi precedenti lo scoppio della pandemia. Il che significa, tradotto in soldoni, che questo governo – per pessimo o discutibile o incapace che lo si giudichi – ce lo dobbiamo tenere, insieme a chi lo guida. Con l’emergenza sanitaria che s’aggrava, insieme a quella economica e psicologica, anche solo immaginare nuove maggioranze parlamentari, rimpasti ministeriali, un esecutivo di unità nazionale magari guidato da un nuovo presidente del consiglio, non parliamo poi di elezioni anticipate, rappresenta una irresponsabile perdita di tempo. C’è semmai da invocare, come segnale verso cittadini sempre più sfiduciati, stanchi e impauriti, un clima di maggiore collaborazione e unità tra le diverse forze politiche, secondo la saggia raccomandazione del Capo dello Stato.

Che non vuol dire annullare le differenze tra maggioranza e opposizione o sollevare il governo in carica dalle sue gravi inadempienze: ieri, su queste colonne, Luca Ricolfi ne ha fatto un puntuale elenco, spiegando quanto esse abbiano contribuito a far trovare il Paese debole e impreparato dinnanzi allo scoppio di questa seconda ondata pandemica.

L’invito alla collaborazione, tra partiti di destra e di sinistra, tra governo e minoranza, significa invece mettere avanti gli interessi dell’Italia e degli italiani in una fase che – come si evince anche dai pessimi segnali che arrivano dall’estero – comporterà per tutti sacrifici e restrizioni persino maggiori di quelli di cui ci stiamo lamentando in queste ore. L’autunno-inverno sarà durissimo e poco vale consolarsi con l’idea che a Natale ci troveremo tutti insieme, amici e parenti, a brindare e festeggiare. Naturalmente, non stiamo parlando di un sostegno acritico a Conte offerto solo per senso di responsabilità nazionale. Parliamo di una scelta politica che, proprio perché fatta da chi gli è avversario e finalizzata a fornire appoggio ad un esecutivo altrimenti debolissimo e privo d’una chiara strategia, implica tuttavia delle condizioni. In modo ruvido e semplificato, ma ragionevole, un possibile percorso lo ha indicato Giorgia Meloni, allorché ha proposto una collaborazione col governo oggi in cambio di elezioni domani. La permuta non può essere messa su carta e nemmeno presentata (e dunque accettata) in termini così meccanici. Ma il problema di condividere decisioni e scelte solo se si avvia una diversa fase politica esiste ed è serio. Il governo dell’emergenza attraverso i provvedimenti emanati dal Presidente del Consiglio, ad esempio, si è rivelato alla lunga prassi a dir poco discutibile. I Dpcm dovevano servire per assumere decisioni veloci in condizioni eccezionali e invece la loro eccessiva reiterazione li ha resi non solo una vetrina propagandistica persino fastidiosa, ma uno strumento sempre meno funzionale rispetto allo scopo. Dunque occorre cambiare prassi, tornando a responsabilizzare il Parlamento. Così come è chiaro che finita l’emergenza, che ha reso paradossalmente inamovibile un governo nato sconclusionato e senza alcuna ratio politica, dovrà essere data ai cittadini la possibilità di pronunciarsi democraticamente attraverso il voto sul futuro politico che desiderano.

Lo spauracchio del populismo non può essere agitato all’infinito come collante politico di una maggioranza improbabile e spesso rissosa. Conviene all’opposizione, invece che giocare allo sfascio, dimostrarsi ragionevole e disponibile, sebbene a condizioni politicamente chiare. Conviene al governo condividere le sue prossime (e necessariamente dure e difficili) scelte con l’opposizione. Se non altro per non divenire – a voler fare tutto da solo, come si è ostinato a fare sino a questo momento, peraltro sbagliando molte mosse – il bersaglio d’un tiro al piccione che già si annuncia e del quale farebbe le spese soprattutto Conte: l’uomo dei (veri) pieni poteri, destinato perciò a diventare – con la situazione sociale dell’Italia che s’aggrava ogni giorno – l’unico capro espiatorio d’ogni malessere e rabbia. Ma conviene soprattutto ai cittadini d’ogni colore politico o senza bandiera poter contare, almeno in questo momento tragico, su una classe politica minimamente coesa e responsabile. Uniti adesso, nel momento del massimo bisogno, civilmente divisi appena sarà possibile contarsi.
 

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