Coronavirus, Johnson e la malattia che si prende il potere

di ​Franco Cardini
Martedì 7 Aprile 2020, 23:00 - Ultimo agg. 8 Aprile, 07:00
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Il problema di Boris Johnson ha obbligato tutti noi a tener presente che i condizionamenti quotidiani non impediscono soltanto di condurre una vita ordinaria a persone ordinarie: ostacolano addirittura le funzioni del potere. In fondo, lo sapevamo e la storia ce lo insegna. 

La storia è piena di cammini anche gloriosi stroncati da quelli che “a mente fredda” si definiscono, con leggerezza, “cause naturali”. La malattia è tra esse. 

Johnson è stato colpito dal coronavirus e dovrà abbandonare le sue funzioni. È del tutto normale: ma qualcuno, sulla stampa del suo Paese e anche di altri, ha obiettato che «avrebbe dovuto essere più prudente». Osservazione un po’ banaluccia, ma ragionevole: così penseremmo noi. Soprattutto, con la mente rivolta alla Brexit. Difficile non prevedere contraccolpi su un fronte che ha visto Johnson combattere con particolare forza, anche fisica, la battaglia per il divorzio dalla Ue. 

L’esercizio del potere, in passato, imponeva obblighi e anche rischi. Umberto I di Savoia sapeva bene di rischiare il contagio, visitando i contagiati da colera nel 1884 sia nel Cuneense, sia a Napoli; e il generale Bonaparte, che pur non era re, aveva fatto lo stesso durante la sua campagna d’Oriente nel 1799 visitando a Giaffa in Siria i soldati (e implicitamente quindi, lui generale “giacobino”, candidandosi al trono). Né Napoleone né Umberto avevano letto il capolavoro di Marc Bloch, «I re taumaturghi”, che sarebbe stato pubblicato solo nel 1924 e che esamina la credenza secondo al quale i re (nella fattispecie quelli di Francia e d’Inghilterra) potessero in determinate condizioni guarire certe malattie solo mediante il tocco delle loro mani. Un’antica verità: “Le mani del re sono mani di guaritore», come John R.R. Tolkien fa dire a un personaggio del suo “Il Signore degli Anelli”. L’immunità rispetto al male era una delle prove della regalità.

Ma i politici democratici sono più prudenti. Eppure, per definizione, l’efficienza e la salute fisica sono precondizioni abilitanti al governo e la loro temporanea o definitiva assenza può determinare al sospensione se non l’abolizione del loro potere. Per quanto ora non lo si faccia più, in passato i re e perfino i papi venivano sottoposti a una visita medica che avrebbe dovuto garantire della loro integrità fisiologica come garanzia di abilitazione a governare. 

Queste antiche tradizioni hanno lasciato ancor oggi il segno? È raro, come abbiamo tutti di continuo l’occasione di verificare, che un sovrano o un capo di stato colpito da un qualche disturbo lo faccia sapere in giro (vero, presidente Berlusconi?). Le costituzioni moderne in genere prevedono la possibilità di casi in cui il capo dello stato debba ritirarsi per motivi di salute. Nella storia della repubblica italiana tutti ricordano il caso di Antonio Segni che, eletto presidente della repubblica nel 1962, si dimise nel dicembre del ’64 per una grave infermità contratta nell’agosto precedente: per quattro mesi le sue funzioni, secondo il dettato costituzionale, erano state svolte dal presidente del senato Cesare Merzagora. 

La storia fornisce, riguardo a quest’ordine di problemi, vari spunti di riflessione. Non tuttavia relativamente a casi d’interruzione dell’esercizio del potere in seguito a contagio epidemico: che, rientrando concettualmente nella categoria delle malattie temporanee, non è di per sé causa di obbligo all’abdicazione. Pericle, la più illustre vittima della peste del 431 a.C. che appunto da lui prende il nome, mantenne fino alla morte la sua carica di stratego. I casi debilitanti sono di altro genere. Quello psicofisico, ad esempio. Nel 1848 l’imperatore d’Austria Ferdinando I, salito al trono tredici anni prima però soggetto a crisi di epilessia e affiancato per questo da un consiglio di reggenza, dinanzi ai gravi avvenimenti di quell’anno cruciale fu indotto ad abdicare in favore di Francesco Giuseppe, il diciottenne figlio di suo fratello l’arciduca Francesco Carlo. 

Ma a volte l’abdicazione per malattia è stata “pilotata” dallo stesso capo di stato. Il caso più limpido al riguardo fu quello dell’imperatore Carlo V d’Asburgo: cinquantaseienne, sentendo le sue forze venir meno e volendo disporre di un po’ di tempo per prepararsi adeguatamente all’incontro con Dio, abdicò ripartendo i suoi immensi domìni tra il fratello Ferdinando, cui andò l’impero, e il figlio Filippo II che ereditò Spagna, Italia e Nuovo mondo. Un sapiente modello di regia politica di una crisi, dal quale sarebbe scaturito l’indirizzo della storia per più di tre secoli e mezzo. 

Poi c’è anche chi si dimette in seguito a un caso di coscienza. Come Baldovino del Belgio, che nel 1990 si dimise in quanto il Parlamento del suo Paese aveva approvato la legge sull’interruzione della gravidanza. Come cattolico, egli non poteva in coscienza firmarla: ma come sovrano democratico non gli era consentito opporvi il suo veto. Quindi abdicò. Fu un gesto leale e nobilissimo il suo: ma solo a livello formale. Le sue dimissioni dalle funzioni regie, d’accordo con il parlamento e senza violare la costituzione, durarono solo un paio di giorni: il tempo necessario a far passare la legge.  
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