Coronavirus, le cause delle code ai pronto soccorso

di Federico Monga
Martedì 10 Novembre 2020, 23:30 - Ultimo agg. 11 Novembre, 07:00
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Molti lettori si sono domandati in questi giorni come sia possibile conciliare le immagini delle code davanti ai pronto soccorso con i dati sull’epidemia che non hanno ancora collocato la Campania in zona arancione o addirittura rossa e in particolare con la disponibilità di posti letto e di terapia intensiva ritenuta sotto i livelli di guardia. 

Me lo sono chiesto anche io nell’editoriale di domenica scorsa, intitolato «Il Paese Arlecchino», e se lo stanno con tutta probabilità chiedendo anche in Procura. Per darvi (e darmi) una risposta sono andato nel piazzale di fronte al pronto soccorso del Cotugno, il miglior centro del Sud per le cure delle malattie infettive, preso d’assalto in queste ultime settimane. Provo a spiegarvi cosa ho visto e cosa ho capito parlando con chi lavora sul campo. 

Prima di tutto ho visto medici e infermieri impegnati senza sosta nell’assistere cittadini e pazienti sulle ambulanze e sulle macchine private al di fuori della struttura ospedaliera. Tutti, nessuno escluso. Non amo la retorica e mi prendo ben guardia dal definirli eroi. Di certo sono professionisti che stanno dando l’anima, il corpo e tutta la loro professionalità ben oltre il dovuto. Di sicuro sono tra i pochi che hanno davvero capito la gravità e l’eccezionalità del momento. Non so perché ma mi è venuto spontaneo ringraziarne uno per tutti con una sola parola e una pacca sulle spalle. 

Osservando il loro impegno ho capito però un aspetto fondamentale per la nostra domanda iniziale. Le code davanti agli ospedali hanno solo in parte a che vedere con la scarsità di posti. Anzi, come sostengono le cifre inviate al ministero della Salute, in Campania, per quanto riguarda la disponibilità di posti Covid, fino al primo novembre siamo al di sotto della soglia giudicata di guardia del 40 per cento.

La settimana successiva la tendenza è salita al 50% In un ospedale, però, non si entra come allo stadio passando il biglietto ai tornelli o in autostrada con il Telepass. Prima di stabilire se un paziente debba o non debba essere ricoverato, deve essere visitato, deve essere presa la temperatura, deve essere interrogato sul suo stato di salute, sui suoi contatti, deve essere rilevata l’ossigenazione, può succedere che debba essere sottoposto a tampone e anche a una Tac ai polmoni. Qualora poi uno dei pazienti risultasse positivo, il medico e l’infermiere si devono spogliare della corazza protettiva che tutti abbiamo imparato a conoscere, devono sottoporsi alla sanificazione e si devono rivestire per ricominciare ad operare. Queste operazioni vanno moltiplicate per ciascun paziente. E per portare a termine tutta la trafila, per ottenere le risposte necessarie a giudicare necessario o no passano ore.

Si va avanti così da settimane. Naturale che si formino le code anche di dieci ore. Solo un negazionista dell’evidenza non si accorge che la domanda di assistenza è incomparabile rispetto all’offerta. Ci vorrebbero più medici, si dice. Vero. Ma un medico, in Campania come nel resto d’Italia, non si compra al supermercato, non si fabbrica con una stampante in tre D. Per formare un medico, a voler far veloci, passa quasi un decennio. E già da venti anni sulle pagine dei giornali (per onestà di cronaca erano sempre le ultime) si raccontava della mancanza cronica di anestesisti e medici. Fino all’arrivo del Covid nessuno ci aveva mai badato più di tanto.

Torniamo alle code. Una volta stabilito se il paziente deve essere ricoverato e dove, inizia la ricerca del posto disponibile. L’Unità di crisi regionale conferma che nel Napoletano il livello di saturazione dei posti è quasi raggiunto. Tutti i giorni si corre sul filo del rasoio tra dimissioni e nuovi ingressi. Ma nel resto della regione, esclusa Caserta, gli ospedali hanno ancora molta disponibilità. E i dati, seppur incompleti, sono calcolati su base regionale. E se Napoli e Caserta hanno numeri molto compromessi sia per i ricoveri che per i positivi, la media e dunque la pagella è decisamente migliorata dalle altre province.

Insomma, giocando sempre sui colori, Napoli e Caserta sono da zona rossa mentre Avellino, Benevento e Salerno, se ci fosse, sarebbero quasi da zona verde. A questo punto il cittadino comune si chiede: come mai De Luca non dichiara zona rossa le province di Napoli e Caserta? La risposta? Una questione di soldi. Se decide il governo, i ristori per chi chiude sono a carico dello Stato. Se decide la Regione sono a carico della Campania. 

Torniamo ai posti letto e ad altri due punti controversi. Tra giovedì 5 e venerdì 6 novembre il numero delle degenze dedicate al Covid ha avuto un’impennata di 1.300 unità. Come è stato possibile? Nel resoconto giornaliero compaiono le diciture «disponibili» e «attivabili». Perché? Addirittura qualcuno lascia intendere tra il detto e il non detto che si tratti di numeri falsi, inventati. Il balzo invece è spiegabile con la decisione di convertire alcuni ospedali “normali” in presìdi Covid e con l’intesa siglata con le case di cura private. Accordo che, a dire il vero, stenta ancora a decollare nella sua piena operatività. I posti «attivabili» sono quelli delle cliniche private, una specie di riserva, già individuati ma non ancora operativi. Non possono essere operativi, spiegano dalla Regione, perché altrimenti dovrebbero essere pagati anche se non occupati con il rischio che la Corte dei Conti apra una inchiesta per danno erariale qualora questi letti rimanessero vuoti per sempre o troppo a lungo. Più che il rischio direi che c’è la matematica certezza visti i precedenti giudiziari, contabili e non. Basti pensare a quanto successo questa estate con gli ospedali da campo di Napoli, Salerno e Caserta. Partita la solita denuncia da un politico di opposizione, è stato aperto un fascicolo (l’obbligatorietà dell’azione penale non è stata cancellata per Dpcm) e subito si è iniziato a gridare allo scandalo e allo spreco perché le strutture erano vuote. Inutili le spiegazioni sulla natura preventiva dell’operazione in vista di una possibile nuova ondata autunnale, puntualmente arrivata. Nessuno mi toglie dalla testa che, se non fossero stati acquistati e montati gli ospedali da campo, adesso ci sarebbe stata un’altra denuncia e un’altra inchiesta in senso inverso sul perché di questa mancanza.

Al di là dei ritardi, delle manchevolezze, delle incapacità conclamate è sotto questa spada di Damocle che chi amministra prende le decisioni. Ho capito anche però che esistono posti attivabili facilmente ed altri che lo sono molto meno perché manca il personale sanitario. E, come abbiamo detto, un medico non si raccoglie su un albero. 

A questo punto voi direte: tutto bene madama la marchesa, la Regione e il sistema sanitario hanno fatto tutto il possibile, sono stati bravissimi ma purtroppo l’epidemia è troppo devastante? Assolutamente no. Le code davanti agli ospedali, l’affanno nel reperire posti letto liberi sono dovuti anche e soprattutto alla totale inadeguatezza e ai gravi ritardi dell’assistenza territoriale, il vero buco nero della sanità campana e italiana. I cittadini assediano gli ospedali perché, come documenta il racconto di Maria Pirro all’interno del giornale di ieri e di oggi, la rete dei medici di famiglia, delle medicina territoriale, delle Asl, della guardia medica non funziona o non collabora come potrebbe. Le visite a casa sono una chimera. Addirittura molti denunciano la difficoltà, se non l’impossibilità, di reperire informazioni e indicazioni al telefono. La sensazione è che, a differenza dei medici e degli infermieri nei pronto soccorso e negli ospedali Covid, non tutto il mondo della sanità, della politica, dell’informazione e della società abbia percepito o, peggio, voglia percepire l’emergenza epocale che siamo vivendo.

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