Da Napoli a Milano, ​i «panari» d'Italia

di Adolfo Scotto di Luzio
Domenica 5 Aprile 2020, 00:00 - Ultimo agg. 08:00
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A Napoli lo chiamano il panaro. A Milano è diventata la «cesta sospesa». È tornato di gran moda in questi giorni drammatici. L’intento è lo stesso, raggiungere chi non ha mezzi e portargli quello che non può permettersi, il cibo e altri generi di prima necessità. Dal Sud al Nord, nelle settimane del Coronavirus, gli italiani si trovano così a fare esperienza di un principio che in tempi crudeli ha una sua triste validità. 

Sopravvive il meno specializzato, colui che può contare su più risorse. Che sono tanto più efficaci, quanto meno canoniche. E da sempre, i ceti popolari hanno dovuto arrangiarsi con quello che avevano. I panari lombardi sono comparsi nei quartieri della cintura di Milano, dalla Bovisa a Dergano, pendono dai balconi e dalle finestre dei palazzi della periferia, portando appesi cartellini che citano il medico di origini beneventane, beatificato da Paolo VI nel 1975 e canonizzato da Wojtyla nel 1987, Giuseppe Moscati: «chi può, metta; chi non può, prenda». Un motto antico, di una società tanto povera che pensavamo di esserci messa alle spalle per sempre. Roba di tanto tempo fa e, ormai, di gente che vive lontano da noi, e di cui abbiamo qualche sentore solo quando approda sulle nostre sponde a bordo dei famosi barconi. In fondo si tratta di una spesa solidale, di tante che si sono viste in questi anni. Solo che nessuno ha mai pensato di fare dei volontari che stazionano davanti all’ingresso di molti supermercati altrettanti messaggeri planetari di speranza.

Certo, la malattia è globale, ma non lo è anche la povertà, che esisteva ben prima del Coronavirus? E di questo Coronavirus, se non avesse colpito i paesi ricchi, ce ne saremmo accorti? Non credo che Madonna abbia mai dedicato un tweet ai banchi alimentari o ai volontari del Cesvi. Lo ha fatto invece guardando il cosiddetto panaro della solidarietà. Madonna è una popstar di remote origini italiane che dell’Italia condivide come molti americani uno stereotipo neorealista, in bianco e nero per così dire. Diciamoci la verità, c’è in questa storia dei cesti di vimini appesi alle finestre un che di lezioso e un innegabile estetismo. Non è un caso che venga fuori dall’intuizione di una coppia di artisti, che in quanto artisti hanno una evidente dimestichezza con le forme della rappresentazione e con la potenza sintetica del simbolo. «Sud e miseria», come «Sud e solidarietà» sono un evergreen al quale è difficile resistere. E Napoli è globale come città dei vicoli, dei panni stessi e dei panari appunto, dondolanti dai balconi.

Ma i simboli non sono mai uno scherzo e tanto meno lo sono di questi tempi. Parlano a tutti con la forza di un’immagine che è immediatamente comprensibile. Bisognerebbe provare a capire, allora, l’immagine di cosa. Non è così scontato come sembra. Un’emergenza che impone il distanziamento sociale evoca, certo, tutte le figure nostalgiche della prossimità. Della vita comunitaria e delle sue risorse, che sono di fiducia, cordialità e schiettezza. Più i dispositivi della vita quotidiana isolano le persone nella loro sfera egocentrica, più la cultura funziona come erogatrice di miti compensativi. Quante pubblicità abbiamo visto in questi anni di persone affacciate alle finestre di casa per scambiarsi denaro, tazze di caffè e frasi gentili. Ce n’era una che reclamizzava un metodo per trasferire piccoli importi tramite il cellulare nella quale i partecipanti alla rete dello scambio venivano rappresentati come dei coinquilini, da un piano all’altro di un palazzo. Ma il cesto calato dal balcone e che torna su carico di generi alimentari non dice propriamente questo. Non parla del rimpianto del vicolo e della sua brulicante vita comunitaria. Allude, se così possiamo dire, ad un contributo diverso dell’esperienza del Mezzogiorno d’Italia all’arte di vivere, l’atavica miseria dei ceti popolari, la penuria di mezzi tecnici, una scarsa capacità di esercitare un controllo effettivo sulle contingenze della vita.

L’Italia settentrionale ha una medicina di avanguardia e un sistema sanitario in ginocchio. Dentro questa frattura sta andando in frantumi molto di quel sentimento di onnipotenza che ha caratterizzato la sua società in questi anni. Fino a poco tempo fa Milano era la città di Don Verzé, che senza troppo scherzare ipotizzava una medicina al servizio di una vita prolungata ben oltre i confini naturali della sua durata. E su questo ha edificato un ospedale d’avanguardia che è anche un’importantissima università, il San Raffaele. Poi è arrivato il Coronavirus e ha colpito gli ospedali, le residenze per anziani, paralizzato il vasto e fittissimo tessuto di cooperative che lavorano nei servizi alla persona. Disabili, individui non autosufficienti, bambini e vecchi, in queste settimane, l’intero terzo settore, vanto del Nord, è stato neutralizzato dal virus, rigettando su famiglie già indebolite da condizioni di disagio il peso di una gestione faticosissima che fino a pochi giorni fa era alleviato da un intervento capillare. Migliaia di operatori, spesso giovanissimi, sono in questi giorni a casa e con prospettive ben poco rassicuranti per il futuro. Una professione che vive di prossimità sociale non ha molte speranze in regime di distanziamento. Quel cesto di vimini allora, che si cala e si tira su, non è solo un’idea carina. Si è impossessato con tanta rapidità dell’immaginario sociale perché dà forma ad una paura, quella di un mondo più povero e con ridotte capacità di controllo sulle evenienze della vita. Una dimensione che una società arretrata conosce fin troppo bene e che l’opulenza credeva di aver bandito per sempre.
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