Scuola on line, le elementari perdono la sfida

di Adolfo Scotto di Luzio
Domenica 29 Marzo 2020, 00:00
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Chiunque abbia un figlio in età scolare ha potuto sperimentare in queste settimane come la mobilitazione del sistema nazionale di istruzione dinanzi all’ epidemia sanitaria sia stata lenta, incerta, profondamente disomogenea. Di fatto, non esiste una risposta nazionale della nostra scuola alla situazione del tutto eccezionale in cui l’Italia si è venuta a trovare a partire dalla metà di febbraio. Certo, l’emergenza da Coronavirus ha riguardato prima il Nord, e la chiusura delle scuole si è estesa al resto del Paese solo dopo, ma ad ormai cinque settimane dai primi provvedimenti, nell’Italia settentrionale si procede in ordine sparso e al Sud le cose non vanno in modo diverso. 

Se l’Università nel giro di pochi giorni è passata in massa all’insegnamento a distanza e spesso in sincrono, mettendo in piedi una struttura che quotidianamente eroga migliaia di ore di lezione, man mano che si scende nei gradi scolastici le cose procedono in modo ben più discontinuo, fino ad arrivare all’istruzione elementare che più di ogni altro segmento della nostra scuola mi pare resistere all’idea di avvalersi di internet e computer per raggiungere i propri allievi. Contano, certo, in questa diversità di risposte, le profonde differenze tra tipi e gradi di scuola. 

A grandi spanne, un conto è una lezione universitaria, un conto un’ora di scuola elementare. Il tempo stesso dell’apprendimento è misurato e vissuto in modi che variano radicalmente dalle aule dell’istruzione primaria a quelle di un liceo o dell’Università. Materie di insegnamento, discipline, curricolo, sono tutti termini della scuola ma è fin troppo evidente che assumono un significato differente a seconda della scuola a cui si riferiscono. Per non dire della difficoltà di tenere davanti lo schermo di un computer bambini di sei, sette, otto anni, che magari devono dividersi l’unico apparecchio di casa con il fratello maggiore o con uno dei genitori impegnato a lavorare da casa. Quindi, non vale neanche la pena insistere troppo sullo schema a risposta variabile che si sta disegnando in questi giorni. Problemi diversi generano, evidentemente, risposte differenti. Né la cosiddetta didattica a distanza è un argomento che, come si suol dire, va da sé.

E tuttavia, alcune considerazioni è possibile farle. La prima riguarda quella che con qualche approssimazione si può definire l’ideologia del corpo magistrale italiano. Vi entrano certo molti elementi e dei più vari. Vecchi e nuovi. Nella scuola elementare più che altrove esiste e pesa sui comportamenti professionali dei docenti un ingombro pedagogico di matrice rousseauiana (di un Rousseau, sia detto per inciso poco letto e ampiamente frainteso) che vuole il bambino tutto spontaneità e sentimento, al quale bisogna risparmiare quanto più a lungo è possibile un impegno intellettuale significativo. Molto gioco e poco studio. Molto corpo, molta espressività. Soprattutto, libero sempre di fare ciò che vuole. Un bambino, semmai, con il quale non ci si astiene da sermoncini educativi sulla legalità, sulla fratellanza umana e, a seconda dei tempi e delle epoche della nostra vita pubblica, sulla mafia o sull’emigrazione, in nome di una compassionevolezza prescrittiva, e dell’obbligo pedagogico di aprirsi a quella che gli inglesi chiamano la sameness, il riconoscimento dell’identità del genere umano sulla base della nostra comune vulnerabilità. Fedeli al vecchio adagio ottocentesco, istruire quanto basta educare più che si può, accade così che le nostre ispirate maestre latitino in questi giorni sul fronte scolastico, facendosi vive al massimo con qualche mail indirizzata ai genitori dal rappresentante scolastico.

Danno compiti, mandano messaggi sonori di incoraggiamento ma non fanno lezione. La loro pigrizia si
ammanta di molte ragioni, figurarsi poi quando si tratta di tecnologie elettroniche, ma nessuna di queste vale a spiegare perché il diritto fondamentale all’istruzione oggi non viene garantito ad una fascia significativa della popolazione. E così, bambini nel pieno del loro sviluppo cognitivo (non solo affettivo, come sempre si ripete, ma intellettuale), menti vivaci, allegre, pronte ad apprendere con facilità, sono restituite alle famiglie, vale a dire alle loro differenze sociali, alla disponibilità di tempo e alla cultura dei loro genitori (e, quando ci sono, dei nonni), agli strumenti molto diversi che trovano in casa, quindi, in una parola, alla loro sorte. Forse bisognerebbe che tutti riflettessero attentamente su questa circostanza. Se non si può fare scuola nel modo in cui le maestre sono abituate a farla, sulla base delle loro convinzioni pedagogiche, è meglio non fare scuola?

Le maestre italiane possono fare così perché la scuola nel nostro paese non ha più un chiaro indirizzo, né un’autorità centrale che sia in grado di far valere la sua volontà. Un ministro che non governa niente, con un apparato periferico di direzioni regionali incapace di coordinare una qualunque risposta unitaria all’emergenza. Con la sua insulsa autonomia la nostra istruzione, quella che pure in passato riuscì a strappare milioni di contadini analfabeti al loro destino di miseria e di marginalità, si è frantumata in una miriade di isole indipendenti libere di ammutinarsi in nome di un autogoverno collegiale vacuo e privo di contenuti.

Ma c’è poi un altro ordine di considerazioni che non devono sfuggire alla nostra attenzione. Non c’è documento ministeriale e programma di partito che in questi anni non abbia additato nella scuola 2.0 e nella rivoluzione digitale il nuovo orizzonte educativo del nostro paese. Ebbene, dove sta questa benedetta rivoluzione tecnologica? La scuola italiana è arrivata a questo drammatico appuntamento senza uno straccio di procedura, senza avere a disposizione piattaforme e applicativi per mezzo dei quali dare continuità alla sua azione istituzionale. In questi giorni, gli insegnanti che si stanno dannando l’anima per fare il loro lavoro devono farlo ingegnandosi come possono, ognuno alla ricerca di una risposta efficace con i mezzi che ha a disposizione e con le sue conoscenze, ma il sistema nel suo complesso, la Scuola italiana in quanto tale è sprovvista di un suo protocollo digitale. Eppure al governo del paese si sono succeduti in questi anni governi di ogni colore e nelle più svariate combinazioni. Tutti, immancabilmente, fautori delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Tutti impegnati a disegnare scenari futuribili. Nessuno, però, che si sia preso la briga di dotare la più potente delle infrastrutture nazionali, l’istruzione, di una adeguata base digitale. L’epidemia passerà e allora bisognerà pure cominciare a chiedere conto.
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